L’ossessione del denaro distrugge la sanità pubblica: non ci sono medici? È una mezza verità
Molti tra i giovani camici bianchi al posto fisso preferiscono i contratti prestazionali: sono più remunerativi. Così però finisce la nobile etica di una missione e tutto si trasforma in mercificazione… anche il diritto alla salute
In questi giorni abbiamo capito una volta per tutte che un reparto ospedaliero si può chiudere e riaprire nel giro di una notte solo ed esclusivamente se c’è una condizione: il denaro. Punto. Altro che guardare alla luna, se si rischia – poi – di inciampare nell’infimità dell’etica che ci gira attorno, anche (e purtroppo) in campo medico. Sono mesi che riempiamo le cronache sanitarie di un unico e solo slogan: non ci sono medici. Poi, però, si materializzano i soldi e di professionisti ne vengono fuori a iosa. E tutto questo succede in questo momento in Calabria ma come in ogni altra parte d’Italia.
Durante la pandemia ci siamo ricordati di elogiare l’eroismo del personale sanitario che sta tutti i giorni nelle corsie degli ospedali con l’unico scopo di salvare la vita alle persone. È la loro missione, è l’effetto di quel giuramento che hanno professato nel momento in cui hanno scelto di prendersi cura della salute delle persone.
Ma evidentemente anche in questo caso c’è da fare dei distinguo. Soprattutto quando si bandiscono concorsi per personale medico, per le diverse specialistiche e quegli stessi concorsi vanno deserti perché – ci dicono – non ci sono medici che possano partecipare e assicurarsi un posto di lavoro a tempo indeterminato. Probabilmente, la delineatura, la corretta chiave di lettura a questa situazione paradossale e assurda è che i medici specializzati ci sono ma sono pochi. Così pochi da averli fatti diventare una élite.
Oggi un medico specialista di prima contrattualizzazione nel servizio sanitario pubblico firma un contratto di circa 3mila euro netti al mese. Troppo pochi rispetto a quelli che, diversamente, si possono guadagnare nella sanità privata o attraverso i contratti prestazionali. Un medico a gettone, come tanti in questi mesi affollano gli ospedali calabresi per sopperire alla mancanza di personale assunto (perché non si fa assumere!), guadagna 100 euro lordi a ora (50 euro netti). A conti fatti, quindi, ognuno di questi professionisti riesce a portarsi a casa lo stesso guadagno che un medico neo-assunto matura in un mese, in appena un terzo del tempo.
Insomma, il trucco c’è ma non si vede – direbbe qualcuno. Anche se, in questo caso, la “magagna” inizia ad essere evidentissima. Non fosse altro per i tantissimi disagi che si procurano all’utenza per poi essere risolti, dicevamo, nel nome del dio denaro. Mandando in soffitta – per non dire altro – Ippocrate e l’etica di un lavoro che lavoro non è.
Ora che la formula del "gettone" venga applicata per i medici in quiescenza, richiamati in servizio, o che abbiano già maturato una loro esperienza, non solo è corretta ma a queste persone andrebbe detto anche grazie per quello fanno. Che, però, si presti il fianco in questo gioco ai medici di “primo pelo” è aberrante.
Perché a questo punto è opportuno fare dei distinguo tra chi il medico lo fa per missione e chi lo fa, invece, per solo e scialbo profitto. Dato che di medici onorabilissimi che assolvono ai loro doveri, per fortuna, ce ne sono ancora tantissimi.
Penso ai tanti camici bianchi in corsia che rimangono nelle strutture pubbliche e che quotidianamente si trovano a dover far fronte alle emergenze con le mani nude o a addirittura a vivere in ospedale - come è successo nelle settimane scorse a una coppia di ginecologi del Punto nascita di Corigliano-Rossano – per sopperire ai turni dei colleghi che non ci sono, che non si trovano, che preferiscono la chiamata a gettone invece di essere assunti. Penso, ancora, ai medici di famiglia in pensione che ancora, invece di godersi il meritato riposo, continuano ad offrire gratuitamente la loro consulenza, anche con una parola di conforto, ai loro ex pazienti. Penso a quanti, veri medici missionari, volutamente non hanno scelto di associarsi né al sistema pubblico tantomeno a quello privato ma di esercitare il mandato d’Ippocrate consapevoli che possono non avere introiti per giornate e settimane intere; eppure sono lì sempre sorridenti, sempre disponibili, sempre attenti.
Li penso come se fossero alberi, il cui carico di conoscenza e sapienza è proporzionato alla loro umiltà. Potrei fare decine, centinaia di nomi di dottori ancora consapevoli dell’importanza essenziale della loro missione per la società.
Eppure, adesso, tutto questo sembra svanire in nome dei soldi. Possibile? Sì. È possibile. A tutto c’è un perché ed oggi è evidente che occorra rivedere le regole d’ingaggio. Perché non possiamo vivere per sempre in emergenza o rimanendo attaccati alla speranza di un medico che pensa solo a tradurre in denaro il suo patrimonio di scienza e conoscenza.