Per arginare la “blancheur” dei giovani, la scuola parli sempre più di vita!
Valorizzare la dimensione individuale dell’essere, attraverso una formazione sana e stimolante dell’ethos sociale e insegnamenti carichi di senso, capaci di preparare alle sfide del mondo reale, nella gioia di essere se stessi
Si è chiuso da poco il primo quadrimestre, con il solito rituale del carosello degli scrutini dedicati alla valutazione degli apprendimenti dei nostri ragazzi. Non faccio nessuna fatica ad ammettere che è il momento dell’anno scolastico che amo di meno: non perché mi voglia in nessun caso sottrarre ad una delle più importanti funzioni della professione docente, ma perché sono sempre più convinta (spinta ancor di più dalla crisi pandemica tuttora in corso) che in ogni espressione di voto deve essere compreso quel “quid imponderabile” che nessuna griglia o descrittore può meritatamente evidenziare e, peggio, calcolare.
Per quanto riguarda la valutazione, la normativa vigente (Dpr 122/2009, D.lgs 62/2017), al di là dei momenti formalizzati relativi agli scrutini e agli esami di Stato, lascia la dimensione docimologica ai docenti, senza istruire particolari protocolli che sono più fonte di tradizione che normativa. Ma la valutazione ha sempre anche un ruolo di valorizzazione, di indicazione a procedere con approfondimenti, recuperi, consolidamenti, ricerche, in un’ottica di personalizzazione che responsabilizza gli allievi. A maggior ragione nel momento di crisi sanitaria e sociale che il pianeta sta vivendo.
Senza disturbare la mente ben fatta rispetto alla mente ben piena di E. Morin, un buon docente sa che l’obiettivo primario del proprio insegnamento non è il sapere ma il saper essere, ponendo molta attenzione non solo a quello che lo studente sa, ma anche a quello che il ragazzo è, alle abilità che manifesta nel comportamento che vanno valorizzate al pari delle conoscenze.
Quanto incide il lavoro scolastico, con tutto l’impegno che esso richiede, con la formazione “alla vita” dei nostri studenti? Sono fermamente convinta, per inclinazione e per i continui studi, che la Scuola non può accontentarsi di impartire un’istruzione di buon livello (e già questo sarebbe un traguardo ragguardevole), ma che debba ogni giorno applicare un corollario spiazzante nella sua semplicità: “non scholae, sed vitae discimus”.
La vita di cui qui si parla è la vita dei nostri Figli, la cui trama e ordito dovrebbero intrecciarsi, in una tela di vissuti umani, con i modi di essere e di esistere di ogni persona, in un’armatura necessaria a sostenere tutte le sfide che si troveranno ad affrontare,.
Preparare “alla vita” in autenticità e pienezza significa offrire “orientamenti di vita”, capaci di dare una direzione al nostro agire caricandolo di senso. Una Scuola che prepara alla vita non può ignorare la dimensione etica e politica di ogni futuro cittadino.
In un recente articolo, Lucrezia Stellacci, già Capo Dipartimento Istruzione Miur e Componente del C.S.P.I., auspica che la scuola presto possa riappropriarsi del suo ruolo di prima agenzia educativa, con funzione di cerniera fra famiglia e società […]; le scuole dovrebbero anticipare i tempi mettendo a frutto la propria autonomia e provarsi a rompere i tradizionali schemi didattici, rigorosamente disciplinari, con metodologie nuove, che coinvolgano i ragazzi in avventurosi percorsi di ricerca della propria identità quali persone dotate di discernimento e quali componenti di comunità da far sviluppare all’insegna dei valori del riconoscimento reciproco e della solidarietà.
La messa a sistema dell’insegnamento dell’educazione civica nelle istituzioni scolastiche (Legge 92/2019), ha posto alle scuole alcune sfide importanti e innovative: bisogna prestare molta attenzione, però, a non ridursi (anche in questo caso!) ad una trasmissione di conoscenze tecniche, ma è assolutamente necessario -in modo trasversale coinvolgendo tutte le discipline-entrare nell’analisi e nella discussione dei valori che sostengono il vivere insieme.
Il filosofo Evandro Agazzi sostiene che l’avvio di una coscienza morale deve partire da un piano collettivo. In altri termini, nessun uomo si forma “per conto proprio”: i propri convincimenti, il linguaggio, le abitudini di vita sono frutto, almeno in partenza, dell’ambiente collettivo in cui si nasce e si cresce.
Solo in un secondo tempo sarà in grado, a sua volta, di apportare il proprio contributo di conoscenze, competenze ed abilità nell’ethos collettivo, con un riferimento interiore condiviso che fa percepire al singolo il senso di appartenenza a una determinata collettività.
E l’educazione della persona nella sua globalità e nell’insieme dei suoi aspetti cognitivi, emotivi e relazionali è il traguardo ambizioso e impegnativo che la legge n.92 sull’introduzione dell’Educazione civica nei curricoli delle scuole di grado e tipologia ha consegnato alla Scuola, con l’insopprimibile compito di evidenziare i valori che compaginano l’ethos cui si ispira (specialmente, per quello che riguarda la Scuola, negli Artt. 3, 9, 33 e 34) la nostra Costituzione: i giovani, i nostri figli, devono poter percepire il robusto patrimonio comune di valori capaci di arginare i modelli di vita più o meno effimeri.
Qualche anno fa l’antropologo francese David Le Breton, nel libro Disparaître de soi, denunciava un nuovo male, definendolo “blancheur”, ossia l’atteggiamento di molti adolescenti che preferiscono “ritirarsi dal mondo” non riuscendo a sostenere la fatica di essere se stessi.
Ebbene, sono dell’avviso che la Legge 92/2019 dia ancora di più la possibilità alla Scuola di aprirsi e di parlare di “questioni di vita”. Parlare della vita non è competenza di nessuna “materia” scolastica specifica: certe esperienze vitali importanti e talvolta drammatiche che vivono i nostri ragazzi sono molto più significative di molte nozioni diligentemente apprese.
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