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Noi siamo Rivoluzione - La Tecnocrazia ha placato la "rabbia" giovanile con la tecnologia

10 minuti di lettura

Nella attuale contingenza storica esistono dei concetti che, reiterati ossessivamente per anni – con il fedele supporto di tutta la potenza mediatica e pseudo culturale – sono ormai diventati una verità consolidata che non appare possibile osare mettere in discussione.

Il principe di tali assiomi è quello secondo il quale il progresso tecnologico è sinonimo di vita migliore per gli individui. Tale assioma è una diretta conseguenza della verità unilaterale in merito alla Rivoluzione industriale che, scalzando l’ancièn regime, avrebbe consolidato il suddetto progresso e paventato una nuova alba per il genere umano. Ebbene, è davvero così? 

Esiste ancora qualcuno che, cieco e sordo alle novità del mondo, osi mettere in discussione il benessere che questa nuova era di progresso ha donato alla nostra quotidianità?

Perché, va detto, operare una onesta critica degli effetti della Rivoluzione industriale vuol dire, direttamente, estendere la suddetta critica al mostro sacro della cultura ufficiale: l’Illuminismo.

Dal momento che l’intento di chi scrive è quello di osservare l’esistente ed operare una conseguente critica sulla base di parametri non convenzionali, occorre, prima di ogni cosa, muoversi su un terreno il più possibile aderente alla realtà. Ossia, per far sì che una critica all’Illuminismo ed ai suoi epigoni, Rivoluzione industriale e Tecnocrazia, possa essere credibile, essa deve essere operata non in base a convinzioni religiose, ideologiche o a fumosi esoterismi o a raffronti con lontanissime, quanto improbabili, epoche iperboree, ma utilizzando lo stesso strumento dal quale è nata la società che si vuol criticare, cioè la ragione.
Questo perché del presunto irrazionalismo ci si può sbarazzare, lo so bene, con un’alzata di spalle, ma con i dati oggettivi e ragionati occorre, o almeno occorrerebbe, fare i conti ed offrirsi al confronto. Del resto, punti espressivi inalterati nella formazione di una coscienza civile riposano, da sempre, nella cultura e nelle esperienze reali “sul campo”; due elementi che non possono essere immaginati come autonomi l’uno dall’altro, bensì, al contrario, compenetrati in una speciale osmosi.

Una coscienza civile si costruisce, passo dopo passo, sviluppando un proprio pensiero critico; ma come è possibile effettuare questa operazione se ogni pensiero che osi discostarsi da quello unico dominate (politically correct) viene immediatamente stigmatizzato e messo alla berlina? Già Pasolini, in tempi non sospetti, aveva inquadrato il nuovo potere globalista e tecnologico come il più violento e totalitario che ci fosse mai stato, perché esso entra nelle coscienze.
Oso aggiungere a questa mirabile intuizione che, mentre i totalitarismi conclamati sono facili da riscontrare, avendo essi segni distintivi evidenti, quello che ci riguarda per l’argomento trattato – e che ci avvolge tutti senza eccezione – è indistinguibile, proprio perché le nostre coscienze ne risultano assuefatte.
Oggi, cioè, viviamo in una inclusione neutralizzante, tesa solo a cancellare ogni differenza e radicamento, sia culturale, sia di genere che territoriale. L’obiettivo è costituito dalla creazione di una società liquida (teorizzata ed auspicata da Baumann) formata solo da consumatori.

Dunque senza la Rivoluzione industriale non vi sarebbe stata la tecnologia che non è il bersaglio di questo articolo, perché ciò che si attacca è la sua esasperazione che si è fatta ideologia cristallizzata, ossia la Tecnocrazia.  Essa, come fenomeno ufficiale nasce e si sviluppa negli U.S.A., come tutti i fenomeni ideologici nefasti che hanno avviluppato l’Europa, ma non rappresenta, questo, l’elemento primario del ragionamento. Perché, infatti, ogni riverbero successivo non può sfuggire dall’elemento fondante costituito dal paragone tra Rivoluzione industriale e Ancien regime o società preindustriale.

La tecnocrazia, cioè ha invertito il paradigma logico che sta alla base del normale (e naturale) rapporto dell’essere umano con i propri bisogni materiali. Da sempre, infatti, è nata prima la domanda e poi, come pedissequa e logica conseguenza, l’offerta. Ossia, solo quando l’essere umano, non solo individualmente ma come appartenente ad una comunità, avvertiva l’esigenza di qualcosa che gli consentisse di vivere meglio, veniva creato quel bene che gli permettesse di soddisfare il suo bisogno.

Con la stabilizzazione dei principi della Rivoluzione Industriale, con il sottofondo degli ideali illuministici e con la veste economica del liberalismo sfrenato – secondo il quale a decidere non è più l’uomo, ma una fantomatica entità impersonale chiamata I MERCATI– ecco capovolto il paradigma suesposto e dunque prende vita e diventa consuetudine il principio secondo il quale a nascere è prima l’offerta e di conseguenza la domanda.

Proviamo, per un attimo, ad immaginare l’assurdità del nuovo feticcio, che oggi in pochi osano mettere in discussione, secondo il quale, in sostanza, l’essere umano non avverte l’esigenza di possedere un determinato bene e/o di soddisfare un particolare bisogno fino a che quel bene non venga creato. Solo da quel momento, dall’attimo, cioè, in cui il bene viene pubblicizzato, egli avvertirà, spasmodicamente, il desiderio di possedere l’oggetto di un desiderio che si appalesa, dunque, indotto e pertanto non naturale.

Perché dalla notte dei tempi sono stati e saranno sempre e solo quattro i bisogni necessari, naturali ed organici all’esistenza stessa dell’uomo: nutrirsi, avere un tetto sulla testa, avere dei panni con i quali coprirsi e avere rapporti sociali latu senso.

Ecco, dunque, a cosa ha portato la rivoluzione tecnocratica, il cui naturale riverbero, necessario per garantirsi una sopravvivenza eterna, è rappresentato dal corollario della obsolescenza.

In cosa consiste tale collegato fenomeno? Se andiamo con la memoria alla nostra infanzia, indipendentemente dall’età anagrafica di ciascuno di noi, ma se siamo abbastanza attempati da riconoscere (anche solo de relato) l’abbrivio del boom economico, ricorderemo quanto sia stato lungo e meditato il transito da radio a televisione, così come il passaggio dalla televisione in bianco e nero a quella a colori. Stessa cosa per i supporti musicali con i passaggi 78 giri/45/33 giri e poi cd.

Ora, teniamo bene in chiaro nella nostra mente questo ricordo e paragoniamolo a ciò che accade nell’era moderna, prendendo come esempio il prodotto tecnologico per eccellenza che accompagna la quotidianità di ciascuno di noi: il telefono cellulare.

Rispondete onestamente a questo: quanto tempo trascorre dal lancio sul mercato di un telefonino cellulare di ultima generazione al lancio del successivo, sempre di ultima generazione ma di un gradino più elevato? Un anno o anche meno? Ecco quindi che avrete l’esempio più lampante del fenomeno sopra richiamato; l’obsolescenza, che consuma ogni bene solo nominalmente e crea il bisogno indotto di possederne un altro dello stesso genere ma solo un milligrammo più evoluto, naturalmente ad un costo esorbitante.

Tutto questo perché, infarciti dei sacri principi illuministi, noi ambiamo ad essere uguali agli altri, proprio sotto la spinta della obsolescenza tecnologica, senza accorgerci che la tecnologia e tutti i suoi bisogni indotti ci ha trasformati in un gregge, una miserabile orda pronta a sbranarsi per trovare una liberazione inesistente. Quindi, la nostra società si legittima come sempre più attratta dalle gioie effimere, quasi totalmente materiali.

Impensabile, per la cultura ufficiale e i suoi accoliti provare ad uscire dal decadimento tecnologico attraverso una paziente, ma perseverante, opera di fortificazione morale, rimparando ed insegnando a sacrificarsi, vivere e lottare per un ideale superiore. Molto meglio, per il sistema tecnocratico, che regni il nulla amplificato.

Nel nulla amplificato gli stimoli culturali sono pochi e di scarso valore ed il turbocapitalismo offre, a mò di compensazione, gadget e piaceri illusori in quantità (è proprio il caso di ricorrere a tale gioco di parole) industriale.

La rabbia giovanile viene, quindi anestetizzata e laddove non ci si riesca, viene dirottata verso lotte sterili, a difesa di presunti diritti alla moda, che in realtà non fanno altro che rafforzare, ancora di più, lo scollamento verso i dominanti.

In ogni caso, se vogliamo restringere il campo al conflitto di classe e, dunque, ragionare con una visione escatologica materialista e non spirituale ed organica, ma tornando sempre al mio ragionamento di base sulla omologazione operata dal sistema tecnocratico, basti ricorrere a un’altra formidabile intuizione pasoliniana e pensare come una volta fosse possibile distinguere un borghese da un proletario dai suoi abiti.

Tale differenza non era solo legata ad una effettiva possibilità economica, ma concerneva una sorta di biglietto da visita per palesare la propria identità nel campo, appunto, del conflitto di classe. Oggi, invece, anche su questo piano puramente materialistico si ha un unico pulviscolo amorfo di consumatori post-identitari.

Paradossalmente, si potrebbe affermare che l’iper-liberismo, illudendo i suoi abitanti di poter divenire imprenditori di sé stessi, li ha tutti, indistintamente, proletarizzati.

Ma torniamo al confronto tra società industriale e preindustriale al fine di smontare qualche luogo comune, soffermandoci su due aspetti in particolare: fabbisogno alimentare e tempo. Certo, ad una prima analisi superficiale, per quanto concerne l’aspetto alimentare e la quantità del cibo, la società preindustriale uscirebbe, in apparenza, polverizzata dal confronto Ma addentrandoci meglio nel merito della questione dovremmo, per onestà, spendere una voce sulla qualità dei prodotti che consumiamo. 

Siamo sicuri che il paragone tra i prodotti coltivati e lavorati, una volta, con il solo lavoro dell’uomo non fossero più genuini di ciò che mangiamo oggi a seguito di un ciclo industriale con prodotti pompati da fertilizzanti e veleni vari? Diciamo, poi, un’altra cosa: la maggior parte delle notizie che abbiamo, in merito alla società dell’Ancien Règime, sono il portato di una visione infarcita di ideologia che aveva la necessità di scardinare ogni aspetto di quel tipo di società. Perché, in realtà, gli storici sanno nulla o poco più di nulla sulla fame nel mondo preindustriale. I più si limitano a darla per scontata. Altri si disinteressano del tutto del problema.

Il lettore potrebbe dire, ma si sa che ci sono state le carestie, è un dato di fatto! Bene, io allora risponderei come non si riesca a capire perché le periodiche carestie dell’Ancien Règime debbano essere considerate catastrofi più intollerabili delle periodiche guerre dell’era del progresso.

Sempre il lettore potrebbe obiettare che i privilegi scandalosi di una piccola fetta della popolazione rispetto al popolo nell’era preindustriale contribuivano ad affamare la popolazione. Io risponderei citando un editto del Duca di Sassonia del 1482, giusto per fare un esempio: “sia inteso da ciascuno che gli artigiani devono ricevere per i loro pasti di mezzogiorno  e della sera quattro piatti in tutto: se è un giorno di grasso, abbiano una zuppa, due carni, un legume; se è venerdì o un giorno di magro una zuppa, due carni, un pesce fresco o salato, due legumi. A questo si aggiunga, mattina e sera il pane e il kofent, la birra leggera”. Provate a non arrivare a fine mese nell’epoca moderna e ditemi chi vi aiuta.

Passiamo all’aspetto del tempo. Va considerato che nell’Ancien Règime il più misero contadino aveva almeno un orto, un piccolo pezzo di terra tutto suo, anche quando gli toccava lavorare i terreni altrui. Pertanto, non essendoci la necessità compulsiva di procurarsi continui beni di consumo, si lavorava solo per il proprio fabbisogno alimentare. Conseguenza naturale era che quegli uomini avevano un bene preziosissimo che noi uomini moderni non abbiamo più: il tempo. Infatti, la media annuale dei giorni lavorativi era circa novanta, anche per la presenza di un gran numero di feste nei villaggi. Insomma, quell’uomo si godeva la vita in maniera semplice. Ora provate voi a dirmi quanti giorni l’uomo moderno lavora all’anno e ditemi se il paragone non risulta avvilente.

Eppure, il concetto del tempo è rimasto a lungo ignorato dagli intellettuali moderni, fatta eccezione per quel genio eretico che risponde al nome di EZRA POUND, il cui ragionamento di partenza è disarmante nella sua semplicità (e forse proprio per questo non volutamente visto dai più); ci sono beni a sufficienza, c’è un eccesso di capacità di produrre beni in soprabbondanza. Perché dovrebbe esserci chi muore di fame? Perché le persone non dovrebbero avere tempo a disposizione? Ecco le domande nude e crude e anche retoriche. La risposta, naturalmente, è che nessuno dovrebbe morire di fame e non avere del tempo per sé, lo studio dell’economia dovrebbe garantire proprio questo.

A cosa, dunque, è servita questa formidabile rivoluzione tecnologica se lavoriamo continuamente per garantirci sempre ulteriori beni, perfettamente identici ed intercambiabili con quelli che avevamo in precedenza, se mangiamo cibi edulcorati e non abbiamo più tempo per coltivare attività sociali e culturali?

Eppure: INDIETRO NON SI TORNA è il mantra ripetuto dal sistema tecnocratico, per il quale il mondo attuale, pur con tutte le sue contraddizioni, rappresenta sempre il migliore dei mondi possibili e come al solito si dà per dimostrato ciò che, invece, è tutto da dimostrare.

Questo, anche grazie ad una parola magica: sviluppo, che si vuole far passare come sinonimo di progresso (un po' come viene utilizzata la parola democrazia ormai come sinonimo di libertà, ma questo è un altro discorso) quando, invece, esso è solo produttore di beni superflui. 

La tecnologia, come applicazione della scienza, ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata e i cui caratteri sono, ormai, in concreto, transnazionali. I consumatori di beni superflui sono, da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere proprio questo tipo di sviluppo, bombardati anche dalla continua pubblicità indottrinante. Per essi questo sviluppo significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”, insomma di tutte le eterogenee categorie del passato.

Questa rivoluzione verso l’esasperante follia tecnocratica trova ausilio nella netta separazione all’interno della cultura, spaccata in diversi saperi scollegati tra loro.

Viviamo nell’epoca della barbarie e dell’auto specialismo, in cui ogni sapere sembra autosufficiente, senza necessità di collegarsi ad altri saperi. Questa degenerazione, citando un altro grande intellettuale vero come Marcello Veneziani, rappresenta l’uccisione definitiva non solo del romanticismo ma anche del rinascimento, che deteneva la prospettiva di collegare poesia, scienza, arte e magia.

L’essere legati ai maestri non vuol dire solo ripetere la loro lezione, ma anche rinnovarla, rinvigorendo l’unità del sapere.

Lasciatemi concludere con il grande Fichte, padre dell’idealismo: “Laddove la scienza sia nemica della vita, evviva la vita e perisca la scienza”.
Sarebbe forse il caso di rammentare questo semplice insegnamento di vita.

di Francesco Russo

Redazione Eco dello Jonio
Autore: Redazione Eco dello Jonio

Ecodellojonio.it è un giornale on-line calabrese con sede a Corigliano-Rossano (Cs) appartenente al Gruppo editoriale Jonico e diretto da Marco Lefosse. La testata trova la sua genesi nel 2014 e nasce come settimanale free press. Negli anni a seguire muta spirito e carattere. L’Eco diventa più dinamico, si attesta come web journal, rimanendo ad oggi il punto di riferimento per le notizie della Sibaritide-Pollino.