di MARTINA FORCINITI Tra quei saporiti formaggi caserecci a pasta dura che si intravedono sugli zeppi scaffali dei nostri supermercati, il caciocavallo è inutile cercarlo. Quello vero, il simbolo dell’identità gastronomica calabra che ha il composito profumo di pascolo e terra mediterranea, non esiste quasi più. È morto, insieme al passato ed al futuro di una regione che soltanto a tavola può ancora giocarsi le poche occasioni di sviluppo che le sono rimaste. «Prodotto con il latte munto dalle mucche calabresi podoliche, è introvabile nella grande distribuzione ed è ormai un'eccellenza di nicchia realizzata in piccolissime quantità da regalare agli amici o vendere nella ristrettissima cerchia dei conoscenti
». A spiegarcelo è
Pasquale Manfredi, in visita nella nostra redazione nei panni non di sindaco uscente del comune di Campana, ma di allevatore. Uno di quelli che porta ancora le vacche al pascolo brado delle macchie. Che rompe la cagliata in grani piccoli quanto un chicco di riso. E che conosce bene la differenza fra quello straordinario formaggio dalla forma perfetta e un insipido ibrido di terre sconosciute.
«Quella che nei supermercati paghiamo 4/5 euro al kg è in realtà una provoletta ricavata da pastate del Nord Europa di cui non si sa nulla
». C’è solo latte? Cosa mangiano i bovini? Certo non quelle erbe aromatiche di Calabria che caricano i sapori di sfumature dolci, uniche. E unicamente nostre. Anche il caciocavallo silano è certamente un formaggio di qualità perché richiede la lavorazione di latte munto da vacche del territorio, nel rispetto di un disciplinare ben preciso. Ma resta fermo che può essere confezionato anche in Puglia, Sicilia, Campania.
Il vero caciocavallo calabrese è quello prodotto con latte di mucche podoliche». Ma quella lenta stagionatura in groppa alle travi, promessa di un piacere speziato da gustare altrettanto lentamente, ormai se la possono permettere in pochi.
«C'è molta frammentazione e poco associazionismo fra gli allevatori e considerato che le norme igienico-sanitarie sono più che restrittive, diventa difficile per il singolo produttore attenervisi. E intanto il consumatore medio si allontana da questa tipologia di prodotti perché la crisi lo ha costretto a preferire una spesa di 2/3 euro al supermercato piuttosto di quella da sostenere direttamente dall'allevatore. Certo un po' più alta, ma a fronte dell’acquisto di un formaggio di altissima qualità di cui si conosce origine, composizione e provenienza
». Da marchio identitario ad alternativa d’elite. Un gusto aromatico che diventa difficile poter assaporare sorseggiando un buon vino da tavola.
Perché il caciocavallo calabrese è in via d’estinzione, soffocato dal mercato dell’omologazione. E dal peso di mattonelle in pasta filata ucraina e olandese che, a prescindere dagli appetiti di ognuno, distruggono la storia, l’economia ed il futuro della Calabria. di SAMANTHA TARANTINO Passaporto italiano, orgoglio meridionale nell’animo. Questo è il caciocavallo. Conosciuto sin dall’età greca arcaica in cui si cominciava a parlare di lavorazione del cacio, il termine ha una probabile origine latina
cascabellum (contenitore del cacio). Il lemma fu poi contaminato dal medioevo in poi, fino ai secoli successivi quando il caciocavallo diventa merce di scambio e di ricchezza. Ed accanto a varie ipotesi di origine del nome, come il cacio portato sul dorso di cavalli, è dal XIV secolo che il termine deriva dal metodo di conservazione e stagionatura, ancora oggi rispettato e seguito. Il cacio, viene messo a cavallo di una pertica o ad un asse di legno del soffitto, legati a coppia, in modo tale che il processo di asciugatura si completi senza umidità. Ma è sotto il glorioso periodo dei Borboni e del regno di Napoli che storia e nome si legano a doppio nodo all’identità meridionale. Si racconta infatti che il timbro della casa reale avesse un cavallo inciso, per cui sulle forme di cacio restava impresso proprio il simbolo fiscale del cavallo reale (le gabelle). Si possono distinguere due forme. Quella tonda a fiaschetta con la testina strozzata, tipica pugliese, molisana o campana e quella nostrana calabrese di forma tronco conica. Ma aldilà dei confini territoriali italiani l’etimo caciocavallo si trova anche in quei paesi dove scorre il bel Danubio Blù, che segue di pari passo la lingua latina e la storia dell’Impero Romano d’Oriente. Ed allora è facile trovare il nome caciocavallo nel
Kascaval d’Ungheria, o nel
Katschkaval Bulgaro, o nel
Kackavalij bosniaco, fino ad oltrepassare lo stretto dei Dardanelli ed arrivare al
Qasqawal turco. Dunque
noblesse oblige caro vecchio caciocavallo.