«Impariamo dal Natale a “disarmare” la parola. No alla presunzione e alla rivalità nelle nostre assemblee»
È questo in sintesi il monito lanciato da Monsignor Aloise nel suo messaggio: «Lasciamo che il Natale smantelli l’aggressività e il rancore, la rabbia e la collera delle nostre parole»
CORIGLIANO-ROSSANO – Smantelli l’aggressività e il rancore, la rabbia e la collera delle nostre parole. La parola infatti è la scintilla che incendia ogni conflitto; e dalla parola si passa alle mani, alla violenza e, se le mani sono armate, si può giungere all’omicidio, al femminicidio e alla guerra. Questo il sunto del messaggio di Natale di Monsignor Maurizio Aloise che qui riportiamo integralmente:
Carissimi fratelli e carissime sorelle,
per il messaggio di Natale di quest’anno, desidero prendere spunto da due momenti che come Chiesa diocesana abbiamo vissuto in questi ultimi mesi:
- da una parte l’avvio dei Cantieri di Betania con il metodo della Conversazione Spirituale che come vicarie e come parrocchie o gruppi stiamo portando avanti;
- dall’altra l’incontro con padre Pierluigi (Gigi) Maccalli, missionario della SMA che abbiamo avuto la gioia di accogliere lo scorso 10 novembre in occasione di un ritiro per i sacerdoti e della veglia missionaria diocesana.
Lavorando sul metodo della Conversazione Spirituale stiamo imparando un nuovo stile di incontro e di dialogo, attivando quel passaggio dall’«io» al «noi» che deve caratterizzare il nostro essere Chiesa. L’attenzione al metodo vuole esprimere anche il nostro voler camminare insieme nell’ascolto reciproco fino a scoprirci l’uno dono per l’altro imparando a cogliere, tra le nostre voci, la voce dello Spirito Santo che parla nella vita delle persone e nella storia. “La sinodalità è la ‘forma’ stessa della Chiesa” - ci ricordava la prof.ssa De Simone - lo scorso 17 ottobre durante il Convegno Diocesano.
Allo stesso modo, padre Gigi, nella sua testimonianza di missionario, rapito e liberato dopo 752 giorni di prigionia nel deserto del Sahara, ci ha parlato del suo travaglio interiore, fatto di tante domande e di ricerca di senso su quanto stava vivendo e subendo: “Perché seminare il bene e raccogliere tempesta? Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Che senso ha tutto ciò?”. Padre Gigi ha cercato, poco a poco, una strada alternativa alla violenza, pur legittima in una situazione disperata come la sua, e l’ha trovata meditando le parole forti del vangelo: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, altrimenti cosa fate di straordinario?”.
L’uno e l’altro di questi eventi vissuti come Chiesa diocesana ci hanno riportati e ci stanno riportando all’importanza del dialogo, al valore delle parole, al peso della parola: parola che vogliamo diventi conversazione spirituale e parola che vogliamo “disarmare”, placare, anzitutto dentro di noi.
Sì perché, nel lungo tempo della sua prigionia, Padre Gigi ha imparato a pregare per i suoi carcerieri e per i persecutori della pace fino a fare sue le parole di Gesù sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Da quel terreno fertile che è divenuto, per lui, il deserto del Sahara ha imparato a “disarmare la parola” ed è questo il messaggio che vorrei fare mio per riproporlo a tutti voi: impariamo anche noi dal Natale a “disarmare la parola” e impariamo anche noi dal Sinodo a fare uso della parola per costruire e non per demolire.
Il Natale che celebriamo ci ricorda che “la Parola eterna dell’Amore” si è fatta carne, nella carne di un bambino totalmente disarmato. Non c’è posto per l’aggressività e il conflitto nella grotta di Betlemme. Come non ci dev’essere posto per i protagonismi e per gli arrivismi nelle nostre comunità, nei nostri gruppi, nelle nostre pastorali.
Non c’è posto per l’arroganza e per la superbia nella mangiatoia che accoglie il Figlio di Dio, come non ci dev’essere posto per la presunzione e la rivalità nelle nostre assemblee e nei nostri incontri quanto piuttosto ricerca della sinodalità come orizzonte, metodo e stile.
Lasciamo che il Natale smantelli, quindi, l’aggressività e il rancore, la rabbia e la collera delle nostre parole. Lasciamo che il Natale ridesti in noi il vocabolario della bontà e della gentilezza, del garbo e della amabilità. Lasciamoci disarmare dal Bambino di Betlemme che, appunto perché “infante”, ci parla con il suo silenzio, con il suo vagito, con il suo sorriso, e più ancora con la sua la sua vita “annichilita”, Lui che “…non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spoglio se stesso”, fino ad offrirsi per amore.
Lasciamo che il suo messaggio di pace raggiunga le nostre case, i nostri incontri, le nostre relazioni e disarmi le nostre parole proprio in questo tempo in cui si giustifica e si implora la fine della guerra, in corso in Ucraina, non con la preghiera ma con la fabbricazione e l’invio di armi sempre più sofisticate.
Spegniamo io focolai di guerra che ci portiamo dentro, curiamo il nostro sguardo, diffidente, purifichiamo il nostro cuore inquinato e la pace comincerà a regnare dentro e fuori di noi. La parola infatti è la scintilla che incendia ogni conflitto; e dalla parola si passa alle mani, alla violenza e, se le mani sono armate, si può giungere all’omicidio, al femminicidio e alla guerra. Le parole violente sono peggio degli schiaffi: ci percuotono dentro e lasciano ferite profonde.
Cari amici, non penso di dire niente di nuovo, ma solo ribadire il vangelo del Natale. In casa come in Chiesa o nella società le parole hanno conseguenze, ma in casa come in Chiesa e nel mondo le parole possono e devono diventare ponti.
È Natale quindi se incominciamo a disarmare la parola imparando a guardare tutti con uno sguardo di bontà e a perdonare tutti con cuore libero.
“Tutti desideriamo la pace - ci ricordava Papa Francesco - ma spesso quello che vogliamo è essere lasciati in pace, non avere problemi ma tranquillità… Gesù invece, non chiama beati quelli che stanno in pace, ma quelli che fanno la pace”.
Nel suo messaggio per la 56° Giornata Mondiale della Pace, il Papa, si chiede ancora: “Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, (del Covid 19, come delle guerre in corso) di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale.
Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato nella ricerca di un bene che sia davvero comune”.
La pace infatti non piove dall’alto ma va costruita con impegno, collaborazione, pazienza, senza dimenticare che il primo passo per diventare operatori di pace è quello del “disarmo” del cuore.
E dopo il cuore, il Natale di Gesù, disarmi la nostra lingua e le nostre mani, rinnovi le menti, guarisca i nostri animi, perché l’unica parola che motiva il nostro impegno di cristiani, l’unica parola che ci fa incontrare sia sempre “fratello, sorella”, e lo stile della nostra vita diventi: shalom, pace!
Auguro di cuore a tutti e chiedo per tutti il dono di una parola “pacificata” che sola può costruire e rinnovare le nostre relazioni, le nostre famiglie e le nostre comunità.
Il nuovo anno porti a ciascuno il bene che desidera e conduca tutti alla gioia di una fraternità ritrovata perché costruita insieme.