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Scorcio da scorcio: Zef De Rada

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Sulla impossibilità di ridar vita fluida e diffusa alla lingua degli Arbëreshë, già troppo dissi, e se torno a ripetermi è perché l’erba amara va offerta più volte. Della lingua dei padri resterà testimonianza nei monumenti letterari, in versi quasi tutti. La arbërishte, estranea sempre più ai parlanti, andrebbe ristudiata, e studiare è palloso. Io, per esempio, ho sempre studiato soltanto ciò che mi garbava, e mai pretesi che altri facesse altrimenti. La parola Cultura, nella sua declinazione mondano-salottiera, mi desta ripugnanza. Una lingua si studia: o per necessità, e studiare la nostra non necessita a alcuno; o per amore, e chi ama la arbërishte si danna a veneri solinghe; o per vanità, ma ai vanitosi basta protestarsi arbëreshë.

         Sette anni addietro, feci stampare un mio libretto di traduzioni da Santori, Serembe e Zef De Rada, corredate di chiose e di una meditazione sull’albanità. In una sua riscrittura ho espunto Zef De Rada aggiungendo versioni dal di lui genitore Jeronim e da Zef Schirò. Ne nacque un libro nuovo, che avrà presto luce d’edizione. Tra il Novembre e il Dicembre passati, su Le nuove ere, che generosa m’ospitava senza affannarmi mai col rischio che i miei testi patissero l’insulto d’un ritocco, pubblicai uno scorcio in quattro parti che dell’espunto Zef presentava figura e silloge dei testi che avevo tradotti. Un più scorciato scorcio propongo ora ai lettori dell’Eco dello Jonio, che mi ospita con eguale generosità e con eguale rispetto.

         Nato a Macchia (Maqi) nel Gennaio del 1852, Giuseppe (Zef) de Rada era uno dei figli di Jeronim (Gerolamo), tutti premorti al padre. Quasi per certo opera del padre la Grammatica della lingua albanese edita a Firenze nel 1871 col nome del figlio. Zef, che morrà nel Novembre del 1883, fu autore di sonetti, di canzoni, di anacreontiche, di stornelli. In prosa scrisse lettere, una interessante Fiaba albanese (Përralez arbëreshe), e un’abbozzata biografia del Kastriota che, intitolata La vita di Skanderbeg cuore grande (Gjella e Skanderbekut zëmer madhe), della fiaba propone il tono e l’andamento.

         Ed ecco un po’ di testi.

         Sonetti, 17: Fu d’Aprile. Cacciavo. Giunsi al piano / e scorsi una fanciulla, accesa in volto. / Ricordava una rosa. Aveva in mano / un laccio a catturare uccelli avvolto. // “Ragazzo – disse – da molto lontano / vengo qui a caccia, però non ho colto / quel che cercavo. Il cappio tesi invano / perché inesperta. Insegnami. T’ascolto.” // Il laccio le acconciai. Presi commiato. / Mossi la gamba, ma restai dov’ero: / ogni moto, ogni sforzo era ghiacciato. // Ahi, stringendole il cappio, inanellato / m’aveva il cuore col suo occhio nero. / E dovunque ella va, le resto allato.

         Sonetti, 48: Le braccia si richiusero. Chinasti / vinta d’amore al petto mio la fronte. / In quel luogo, in quell’ora, benedetta / sentii la vita in me: fu colto il fiore // dell’Aprile in un moto delle braccia. / Speranza inconfessata, ardito sogno / d’una felicità fatta d’amore / diventato realtà come un miracolo. // Ebbi, ebbi tutto quello che bramavo. / Mi seppi il prediletto della gioia, / mi seppi il prediletto del destino. // Nelle sue membra avvinte alle mie membra / con desiderio, il sole che temetti / troppo lontano le mie braccia strinsero.

         Ecco la mia versione d’un Compianto che in forma di sonetto Zef compose per la morte del fratello Michelangelo: Giorno atroce passò. Triste dal mare / balenò il sole e sparì tra le nubi: / perché vedere Macchia la graziosa / da chi le dava gioia fatta vedova? // Da terra insieme all’improvviso gemiti / e grida, in alto, in alto, fino al cielo. / Tremò la casa, tutti i corpi un brivido / percorse, e il suolo lo inghiottì. Mai torni, // oh, mai, mai torni un giorno così amaro, / giorno che ha stretto i cuori e li ha stracciati, / che ha sparpagliato in terra ogni bellezza! // Come accadde, nessuno saprà dire: / so solo che la Morte se l’è preso / in silenzio, lasciandoci miseria.

         Forse mai come qui il giovane De Rada ha colto il centro del bersaglio con freccia più sicura. Passiamo ora alle Canzoni.

         Canzoni, 7: Lontana, certo / me non ricordi, come / se mai m’avessi conosciuto, e forse / d’un nuovo desiderio nutri il petto. // Fa’ pure: il tempo che fummo felici / mi basta, e lascio al vento / rapire ogni pensiero. / Ma nel luogo che vide / fiorire il desiderio nel possesso, / la gioia s’abbraccia alla pena. // Giorni affogati nell’amore, / giorni ubriachi di felicità: / era bella ogni cosa, era in te / la vita mia, e tu vivevi in me. / Poi venne il vento / a inaridire tutti i nostri fiori. / E il ricordo consola / subdolo.

         Chiudiamo con una Anacreontica, che tradussi due volte. La seconda versione, rubricata con l’identificativo “bis”, copre l’originale in ritmo, metro e numero di versi. Il lettore vedrà quale è venuta peggio.

         Anacreontiche, 1: Seduto accanto ad una donna bella, / dal seno bianco, / dal colmo seno, / dalla chioma odorosa ingioiellata, / io voglio bere / e bere ancora / del nettare di Bacco, ed ubriacare / anima ed occhi / negli occhi suoi, che ha collo così candido. // La voce fusa / alla sua voce, / voglio cantare / sulla mia cetra / le lotte dell’amore. / L’amore, il vino: / consumare così / il mio brano di vita.

         Anacreontiche, 1 bis: Seduto accanto / ad una bella / donna dal bianco, / dal colmo seno, / dalla soave / chioma trapunta / di perle e d’oro, / dal collo candido, /vo’ bere il nettare / di Bacco, ebbri / anima e occhi / negli occhi suoi. // La voce fusa / alla sua voce, / voglio cantare / sulla mia cetra / guerre d’amore, / piaghe d’amore. / Le donne, i calici, / la gioia… Il breve / mio tempo voglio / così passare.

         Lo studio d’una lingua è altro dal suo uso, così come la pratica dei monumenti suoi è altro dalla presenza, nei giorni d’un popolo, di tracce vive degli stessi. Giacché il solo entusiasmo autentico degli Arbëreshë è nella sagra del costume e nei canti, bello sarebbe se squarci dei nostri poeti canonici fossero musicati e presentati al Festival di San Demetrio insieme ai canti nuovi. Ignoro se si possa, come ignoro se già lo si tentò o se altri già l’abbia proposto. Spregiando il fregio d’una eventuale priorità che né mi farebbe immortale né mi guarirebbe dall’insonnia, lancio l’idea: non già con la (ridicola) speranza che giri di frase deradiani o serèmbici o schiròici possano prendere a fluire nel residuale frammentario sclerotico semioccluso sistema vascolare italoalbanico, ma perché i nostri poeti possano non essere passati totalmente invano presso il loro popolo.

         P. S. L’articolo fu scritto non ricordo più quando. Ciò che segue vado invece stendendo nel cuore della notte tra il 24 e il 25 Luglio. Poche ore addietro, a San Cosmo Albanese, il Coro polifonico Sofioti Cantores si è prodotto in uno spettacolo sceneggiante un amore suggellato da giustissime Nozze cristiane. I canti punteggiavano, i canti cullavano l’azione. Tutto vero per arte sapiente, tutto implume e fastoso, com’è la vita nella sua forma necessaria – Arbëria arbëreshe, Arbëria e basta, giustificata sulla scena, palpitante nei petti. Casta quanto crudele, una luna pagana si levava bianchissima nel buio privo di confini. Troppo felice però ognuno perché la luna lo spaurisse, perché il cielo gli desse vertigine.

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.