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Una cesura e un ponte: Leonardo D’Amico

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Se il limite basso del figurativo è la (pavida o volgarmente saggia) acquiescenza al dato esterno universalmente esperibile, il limite basso del non figurativo è il (fortuito o subdolo) caos di forme e crome. Furono e sono due le stagioni pittoriche di Leonardo D’Amico: figurativa la prima, non figurativa l’altra. La cesura è profonda, ma un ponte che non vedi lega le due epoche. Né là né qua il D’Amico si macchiò di bassura. Il fabrile e disinvolto possesso della tecnica era stato opportuno strumento per il prodursi d’un mondo poetico-pittorico affettuoso, fraterno e familiare. Il medesimo possesso si fece, nella stagione che seguì, veicolo all’irrompere e all’erompere d’un mondo non meno fraterno e affettuoso, ma non più familiare o forse troppo familiare perché lo si possa cogliere al volo.

         Una agréabilité di marca impressionista connota la prima sua stagione, stagione di una grazia che, in quanto tale, non pone domande, effonde il suo respiro, e il colore, che fa ciò che alla linea nessuno chiederebbe, lo eterna sulla tela senza pretendere un altrove né un poi. Il tempo è ammaliato, se Arcadia lo avvolge; e la pace è tristezza, poiché si sa che ogni gioco finisce. L’altrove è un altro, l’altrove è il poi, è il tempo, inquietudine d’uomo – la cui figura, qui, fu bandita per questo. L’uomo ansima oltre il quadro. Gli ansima addosso, se il quadro è pace ed egli è fuori. Pone domande, l’uomo. Ogni Arcadia è il vanire d’Arcadia.

         La cesura è prodotta. L’abbiamo già varcata senza accorgercene. Sostavamo nel tempo senza tempo della prima stagione, ci aggiriamo stupiti tra tele cui non basta d’essere superfici su cui fiorisca il prodigio della profondità. Sono tele che reggono spessori di materia, aneliti al volume. Reggono strati. Uno strato più antico che nuovi colpi di pennello sospingono in un prima non solo temporale. La roccia più antica è soltanto più antica. Puoi crederla più vera degli strati pietrificati dopo. Hanno dignità pari, invece, la roccia prima e la roccia seconda: quella ridotta a traccia mnestica, questa privilegiata solo perché più prossima al tuo occhio – e la nuova è abitata dalla antica, che umilia in vano. Se è tempo di domande, l’uomo è le sue risposte: sibilline e sincere. Dell’uomo neanche qui troverai la figura, ma il solo suo accenno. Ne trovi il nome e l’orgoglio, però, in una tela d’un vasto giallo terreo in cui svetta un cipresso e in cui quasi si perde un conato di lago come un ricordo d’acque tra sabbie assetate. È l’uomo di Terenzio, che assevera sé stesso: Homo sum; quanto al resto del verso (humani nihil a me alienum puto), è osteso, semicelato, semicancellato a sinistra dell’acque del lago – né cerca la complicità stantia di chi abbia ancora nell’orecchio i latinucci del Ginnasio. Cenni e progetti di figura ritrovi in altre tele. Di rado la figura è compiuta. Lo è ad esempio la sedia color seppia accampata sul bianco e nel bianco (Seduta con ombra– serie Sitting), e si raddoppia in un’eco più vasta e più sottile oltre una macchia grigia che la sporca e che in parte la cela. Altre volte, puri domini di colore, che paiono contendersi la tela come due Stati in guerra. È il caso di Il cerchio rosso, dove il dominio più vasto è un cielo vermiglio per virtù propria e a onta d’un sole nerastro che lo macula aggrovigliandosi in arruffo; in basso è un campo giallo: denso vivente vaporoso, ora sembra un lacerto di terra, ora un campo di spighe, ora una nube d’oro. Una linea corvina, congrua soltanto al centro,tenta per come può di marcare il confine. Tutto però si tiene: la guerra non è guerra, il cielo mai sarà campo di spighe o lacerto di terra o nube d’oro, né il campo sarà cielo. Benché piccole bave vermiglie gocciolino sul giallo, questo e il rosso coesistono, in stupefatta attesa. In Dekompozim 10 è invece un cielo bianco che cola in filamenti inesorabili su un’alta selva di nobile azzurro, e di verdi, e di rossi. Cola non prepotente, ma sicuro. La selva azzurra e verde e rossa ha un’anima. Nuda materia è il bianco. Cola con innocenza atroce, e la selva è più bella, più fraterna per questo. Né il cielo è tutto e solo bianco. I resti del suo azzurro sono promesse d’una serenità sottesa, cui poter tendere le mani.

         La seconda stagione pittorica di Leonardo D’Amico non è un’Apocalisse irrotta sull’Arcadia, ma è ancora l’Arcadia trafitta da domande; le mai crudeli e mai livide risposte scavano vie nel petto di chi guardò, riaffiorano laggiù, in domande più alte e vibranti. Arte è sempre risposta inappagata. Più non mi sforzo di offrire per parole ciò che pretende d’esser visto. La foto apposta a questo scritto non è che un exemplum. L’opera del D’Amico è vasta. Merita in ogni snodo occhi che sappiano nutrirsene.

In copertina: Il cerchio rosso. Leonardo D’Amico.

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.