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ARIE E RECITATIVI – Vicoli, belve e verità

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Il mio villaggio è molto bello, e io sono un uomo nervoso. Gioviale è la mia gente, né mancano i tipi bizzarri. Sono anch’io della schiera. Frotte di bimbi allietano piazzole, vichi, e cuori stanchi. La beltà del villaggio sta nella cura dignitosa di vie, case e palazzi, e sta nel fatto che esso s’abbranca a un così vario rincorrersi di colli, che non v’è quasi un tratto piano né quasi una via dritta. Lassù la Sila, di là il Pollino, laggiù il mare, e chiudo per non finire nel pastello. Ma io sono un uomo nervoso, e il nome del mio borgo, se in albanese risuona monello come il nomignolo d’un bimbo (Vakarìc), in italiano è brutto con spudoratezza. Protrae infatti la propria mala grazia per ben quattro sillabe punteggiate per giunta da due doppie aspre e chiocce, sì da dare l’idea d’una pillacchera giallastra e, insieme, d’un gessetto che strida su una lavagna rugosa. Atroce noia pei miei nervi, quel nome m’ha sempre impedito di tentare di offrire un poema al villaggio che amo. E ne ho preso vendetta in un misero distico in quinari, nemmen rimati ma solo consonanti: O Vaccarizzo, / nome del cazzo!

         Ma il villaggio è bellissimo, e cordiale la gente, tanti i tipi bizzarri, e i bimbi giocano sotto un cielo di pace mentre la peste defluisce, per virtù di vaccini o volontà del Cielo.

         Riposante sarebbe se il solo soggetto nervoso di Vaccarizzo Albanese fossi io. Ve n’è altri, però, com’è ovvio. E pochi, pochissimi anni addietro, tutti noi nervosi eravamo aduggiati dai cani randagi. Girellavano soli, o a coppie, o a piccole brigate. Ma spiccava tra essi un terzetto diabolico. Era composto da un grosso cane nero, innocuo ma che impauriva con la mole; da un altro non meno grande e che era stato bianco, ma che una rogna vasta quanto convinta aveva spelacchiato e coperto di purulente chiazzerosse; completava la terna uno più piccolo, biondastro, aggressivo. Aveva pure un nome: Billy.

         Ora avvenne, ed era l’ultima estate prepandèmica, che i tre cadessero nella rete amorosa che la civettuola cagnetta d’un mio vicino aveva intessuto per loro, sicché la puntavano languidi dal mio marciapiedi. Esco di casa e ce li trovo, rientro e sono sempre là… L’assai grave disagio mi spinse a chieder lume a espertissimi esperti. Ognuno mi diede un consiglio. Eccoli tutti: guardali fisso negli occhi, e non ti daranno più noia; non li guardare mai negli occhi, e se ne andranno; percuotili, e avranno paura di te; non percuoterli mai, ché ti pigliano in odio e si vendicano; da’ loro qualche buon boccone, e te li fai amici; non dargli nulla da mangiare, o li avrai sempre attorno. Il solo aiuto vero mi venne dal più simpatico tra i buoni nonché più buono tra i simpatici, e cioè dal grande Alfred, che non li temeva e ne era temuto, e che veniva a prelevarmi se dovevo uscire, accompagnandomi al rientro. L’ira più amara mi venne quando ne ebbi parlato con Cleopatra e Marco Antonio. Cleopatra è un’assai cara mia amica d’infanzia che sento spesso per telefono giacché non mette piede a Vaccarizzo da almeno quattro lustri, e cioè da quando s’è trasferita in un villaggio grande al punto da annoverare addirittura tre monumentali distributori di benzina, presso uno dei quali ella lavora. È Marco Antonio un mio fraterno cugino. Vive a Napoli. Mi ospita sovente. Anime nobili, cuori generosi, intelletti acutissimi entrambi, entrambi antepongono agli uomini le bestie. Marco Antonio convisse per anni con un gatto malato di tumore dal cui muso colava perenne una bava sanguigna. A chi gli faceva notare la pericolosità della cosa (io fui tra essi), rispondeva piccato che il cancro non è contagioso. Cleopatra sola (si conoscono, i due, e si frequentano) approvava. Ebbene, quando dissi loro del mio disagio, Marco Antonio arguì che se Billy m’assaliva era certo perché lo avevo molestato io per primo. Quanto a Cleopatra, sentenziò dottorale che il (da lei mai veduto) cane bianco era sano, sanissimo, e a spelacchiarlo e a arrossargli la pelle erano stati i rovi. Presi anche qui vendetta, immaginando Cleopatra e Marco Antonio coppia di sposi lieta, non già d’una nidiata di pargoli, bensì di una caterva di umidi gatti cancrenosi e di cagnoni rubescenti di rogna. Il problema vanì. Del nero si perse ogni traccia, e il bianco tornò sano per le cure affettuose e sapienti – così almeno si predica – d’una leggiadra dama bruna; quanto al ringhioso Billy, mi si disse che è morto, e n’ebbi pace.

         Poi, poi fu il gran morbo. Fu terrore e clausura. E ora che il morbo sembra cedere, il mio leggiadro borgo dal nome sgraziato è preda dei cinghiali. Ancora non infestano le vie. Si limitano ai campi. Ma il villaggio è piccino, e ha campi tutt’intorno. Non consultai esperto alcuno. Esco di casa armato d’un poderoso bastone, prego il Signore degli Eserciti coi versetti del Salmo 80 (79), che parla appunto di vigne e di cinghiali, e trovo pace piena dicendomi che, se Adone fu sbranato da un cinghiale per la gelosa ira di qualche dio bugiardo e falso, nessun dio ce l’ha o mai ce l’ebbe con me, anche pel fatto che Adone era un giovane d’inesausta bellezza, laddove io sono vecchio e, nei miei anni più verdi, mi trovavano bello solo ragazze molto miopi.

        

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.