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Tra il rettangolo verde e la vita

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 “Seria è la vita, gaia l’arte” ebbe a scrivere, in un verso rimasto famoso, Giovanni Federico Schiller. L’arte, ciò va da sé, ha la sua propria serietà. Serio a suo modo è pure il gioco, che all’arte si apparenta. Seria non è la vita, nella sua cialtrona ricattatoria serietà – e la si chiama mondo; serissima è la vita, di serietà remota e prossima come un alto mistero.

         E come alto mistero, la vita irruppe sul campo di gioco un pomeriggio di Ottobre del 1977. C’è Perugia – Juventus. Tra i ventidue che giocano, Renato Curi, giovanotto baffuto, dalla chioma un pochino scomposta. Ha pure un accenno di pancia. Una simpatia placida spira dai suoi lineamenti. Improvvisa e vorace, la vita, nella forma dell’ultimo suo atto, s’impossessa di lui, che corre a caccia del pallone. Gli si inchioda nel petto. Gli arresta il cuore.

         Puttana ubiqua e vittoriosa, la vita può servirsi dei poveracci che plasma per intralciare con slealtà la trama magica del gioco. Si pensi a Andoni Goikoetxea Olaskoaga, che ruppe la caviglia a Diego Maradona; si pensi a Pasquale Bruno, le cui scarpe chiodate erano avvezze alle ossa e ai tendini degli avversari assai più che al pallone. Dei pestaggi che andava infliggendo, Bruno parlava, intervistato, come di atti insieme eroici e di routine – anello che si ostenta in piazza, e tutti sanno che è rubato, e che in fondo va bene così.

         Una sera di Maggio del 1986, Helmuth Duckadam, gigante tutto agilità, parando quattro calci di rigore permise alla sua squadra, la Steaua di Bucarest, di vincere, prima compagine dell’Est, la Coppa dei Campioni. Fu salutato eroe: dello Sport e del Socialismo. L’anno dopo scomparve. Nessuno ne sapeva nulla. Qualcuno assicurava di averlo visto assistere dalla tribuna a questo o a quell’incontro: con le mani fasciate, o con un braccio al collo. Si prese a dire che Valentin, uno dei figli del tiranno affamatore di Romania, entrato in gelosia per un’auto di lusso di cui un ammiratore avrebbe fatto dono a Duckadam, avrebbe inviato alcuni sgherri della Securitate a frantumargli le mani. Anni e anni dopo, Duckadam stesso raccontò di aver patito una trombosi al braccio. Non era stata dunque la vita come meschina onnipotenza di regime, bensì la vita come natura a umiliare per sempre l’eroe.

         Nei panni della prepotenza di regime la vita giunse a dire la sua a danno di Eduard Strel’cov, luminosa certezza del Calcio sovietico. Trionfatore con la Nazionale alle Olimpiadi di Melbourne, era il prolifico centravanti della Torpedo Mosca, compagine poco amata dalle alte sfere del Partito, che nel 1958 gli imposero il passaggio al CSKA (era la squadra dell’Armata Rossa) o alla Dinamo, cara al KGB: scegliesse lui! Strel’cov si disse lieto di restare dov’era, e ciò rabbuiò non poche stelle del PCUS. Il buio s’infittì quando Eduard ebbe parlato con troppa schiettezza a Ekaterina Furceva, unica donna del Politburo e futuro ministro della Cultura, la cui figlia Svetlana s’era di lui incapricciata. Imbastitagli ad arte un’accusa di tentata violenza carnale, lo si spedì a rieducare in Siberia, e ve lo si tenne sette anni. Tornò a Mosca e riprese a giocare tra i ranghi della sua Torpedo e in Nazionale. Morrà di cancro a 53 anni, nel Luglio del 1990. La vita come mafia tout court ebbe invece ragione, per raffica di piombo davanti a un bar di Medellín, di Andrés Escobar Saldarriaga, reo di essersi impigliato nell’autorete che eliminò la sua Colombia dai Mondiali del 1994.

Pedante fino all’asfissia è la vita; e lo saremmo pure noi se tentassimo di varcare la soglia dell’anima di Agostino Di Bartolomei, possente centrocampista della Roma, del Milan, del Cesena, suicida a trentanove anni d’età. Alleggeriamo perciò il tutto tornando a dire che la vita è seria. È seria, infatti, come la Juventus. A chi portava la chioma prolissa e dalla Juventus veniva ingaggiato, Agnelli, Boniperti, o chi per loro, consigliavano presto di correre a farsela scorciare. Obbedivano tutti. Nell’estate del 1982 la Juve acquista Platini. Michel viene a Torino. I più alti papaveri del Club son lì ad accoglierlo. Sorrisi e complimenti. Quindi l’ordine, in forma di consiglio che ti si dà per il tuo bene: “Non ti sembrano un po’ troppo lunghi i tuoi capelli, Michel?” E Michel, giovane re e giovane dio, col più francese degli accenti: “Non si preoccupi: non ho problemi di caduta!” Fu il primo atto di grazia in terra italica di un calciatore che nelle tre stagioni successive intessé trame inenarranti, gonfiò le reti di vittoria, innamorò di sé chi amava il Calcio.

         Sotto la forma di voce del padre, la vita negò a stuoli di ragazzi persino di provare a varcare i cancelli del rettangolo verde. Dirò di uno soltanto, e cioè di Gualtiero Della Miria. Giocavamo insieme, d’estate, in quel di Lavarone, dove noi si andava in vacanza. Ogni slargo era buono a far fiorire il gioco. Davamo vita a incontri pure al campetto comunale. Quando Gualtiero era con te, con te era la vittoria. Dava l’idea di possedere la prescienza di ogni sviluppo possibile, e sceglieva il più certo. Puntuale e lieve, dettava l’ultimo passaggio o andava in gol con la grazia del sogno. Aveva giocato nelle giovanili del Vicenza. In Inghilterra, dove soggiornava per un tirocinio, fu ingaggiato dal West Ham United. Ma la voce del padre, capitano d’industria in Valle d’Astico, lo raggiunse oltremanica, gli pigolò tutto il tempo all’orecchio, gli impose serietà. Oggi è pur egli capitano d’industria. Ma un pallone e uno slargo gli riempiono gli occhi di luce, il petto di sospiri.

Le terre di Venezia sospingono il discorso verso il calciatore che tra noi visse e incarnò lo scarto come nessuno mai prima o dopo. Non già lo scarto previsto dalla norma, che, sbolognato ai creduloni d’ogni ceto età e sesso, fa ricchi i menestrelli i giullari e i romanzieri di regime: lo scarto, invece, di chi è sé stesso in ogni istante e non tollera dita che grette lo ritocchino. Ezio Vendrame (è di lui che si parla) giocò e non giocò nel Siena, nel Rovereto, nel Vicenza; col Napoli e col Padova. Naufragò lieto in categorie minori. Beccò una squalifica a vita per dileggi all’arbitro. Lo graziò un’amnistia, che fu concessa per la vittoria italiana ai Mondiali di Spagna. Segnava poco, ma i suoi gol si ricordano. Durante un Padova – Udinese, andò a battere un corner, si soffiò il naso alla bandierina, fece capire a gesti chiari che avrebbe fatto gol proprio col tiro d’angolo che s’apprestava a scoccare, e gol fu. In un Padova – Cremonese di insoffribile noia, prese a dribblare i propri compagni, superò il portiere, fermò la palla sulla linea di porta e minacciò di fare un autogol che poi non fece. Un tifoso fu colto da infarto. “Chi è debole di cuore non venga a vedermi giocare”, chiosò quando lo seppe, e la mestizia, che gli si era rifugiata in qualche anfratto dell’anima, brillò severa nel suo sguardo. Col Napoli giocò soltanto tre partite. L’allenatore Vinicio lo aveva preso in uggia poiché troppo attratto dalle donne. La squadra partiva per Cagliari. Nella sala d’attesa dell’aeroporto di Capodichino conobbe una strafiga. La ritrovò a Cagliari, nella hall dell’albergo. Legarono. Vinicio se ne avvide. Lo spedì in tribuna. Vi andò con lei. Scoparono nei bagni dello Stadio. Fu lui stesso a narrarlo, in uno dei suoi libri. Ne scrisse tanti, anche di versi. Lessi una sua raccolta, intitolata Senza alcun anticorpo. Quasi con fedeltà, la memoria me ne fornisce brani quali: “Uccello di periferia / il mio / da quando tu non sei più mia.”; oppure: “L’inaugurazione della tua fica / ormai è fatta. / Spero che resti fica, / e non diventi una vecchia ciabatta.” Qualche critico cadde nella rete. Trasse in ballo Villon, e altri irregolari. Ma questi di Vendrame non sono fatti d’arte o di una antiarte che si pretenda più arte dell’arte. Sono brutali arcisimpatici lacerti di cuore buttati sulla pagina, compagni dei lacerti che aveva gettato sul rettangolo verde.

Ezio morì nell’Aprile del 2020. Gli dedicai una poesia. S’intitola Ezio Vendrame. In memoriam. La trascrivo con gioia rabbiosa.

Benedetta colei che te la dà / perché le sei simpatico; / benedetta colei che te la dà / perché la paghi. / Ma maledetta chi volesse dartela / previo viaggio in Birmania, o Irlanda, o Messico; / e maledetta chi volesse dartela / dopo un concerto di Ravel, o Schumann, / o Brahms, buono a lessarti / le palle a fuoco lento. // Il mondo è una prigione per i puri. / Puro, ferivi il mondo con bizzarri / manrovesci, e ridevi, Ezio Vendrame. / Facevi gol di cui non t’importava, / seminavi poesia sopra il liquame / fetido della noia. Gli insepolti / fingono vite che non hanno: il Cristo / prozio nobilitante il clan, accumulano / capitale col dirsene / nemici, adorni sempre / di pene e penne altrui. / Ma tu te ne fottevi. Ne soffrivi / per improvvise tenerezze, e poi / saggio, tornavi a fottertene. // Astemio, / avrei bevuto grappa insieme a te; / vini delle Venezie avrei bevuto / con te, tu che moristi / perché eri troppo vivo. // Ora la pace / ti fiorisca sul cuore come un manto/ d’erba immortale. 

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.