ARIE E RECITATIVI - Mille canti da una lingua che muore
Un colpo d’occhio dolente e scanzonato sugli sparsi detriti di una lingua che solo i canti ravvivano
Per le terre del Meridione d’Italia vive un’efflorescenza di colonie albanesi, sorte nei secoli per vari flussi migratori dall’Albania e dalla Grecia albanica. Gli Arbërèshë (questo il nome del popolo), cattolici di rito bizantino nella più parte dei villaggi, parlano (o parlerebbero) la arbërìshte. Sporade di dialetti più che lingua, meticcia ormai per andare di tempo e per coabitazione (astiosa prima e poi sempre più placida) con l’elemento autoctono, rantolaessa in bocca ai vecchi, che mai seppero scriverla o leggerla, ed è negletta dai giovani, che la sentono estranea o d’impaccio. Autentico è l’orgoglio della stirpe. Esso giunge però a condensarsi in ircocervi quali: U parlo sempre arbërìsht ai miei figli, perché na jemi orgogliosi di essere Arbërèshë, e kem bëmi tutto sat mos bin e vdesen la nostra lingua e le nostre tradizioni. Inutile tradurre e amaro ammettere che quasi ogni arbërèsh parla così. Non pochi tra i pochissimi innamorati veri della lingua vanno sognando che, studiata nelle scuole, essa torni a fiorire in bocca al popolo – né mancano docenti cui dell’idioma in questione sia noto ogni anfratto. Quando però un’intera comunità spontaneamente decreta la morte di questa e di quella parola, di questa e di quella locuzione, di questa e di quest’altra funzione strutturale, chi a scuola se ne rimpossessa mai ne fa uso nella vita, pena il dileggio da parte di chi ascolta. Qui e solo qui è lo snodo: la spontanea vergogna del singolo a usare forme che il gruppo sente inadeguate. Provi ogni innamorato a usar parole d’altri dì nel conversare quotidiano, e una valanga di incredule e risentite risa gli tingerà di porpora le gote e il naso. Così le lingue mutano. Così la nostra muore. Giusto è che una legge tuteli le minoranze etnolinguistiche. La legge, infatti, c’è: 482/1999. Tra noi, essa è d’aiuto a strutturare la bella e sana volontà di dirsi Arbërèshë. Che per essa la arbërìshte torni però a fiorire nei cuori e sulle labbra degli Italoalbanesi, è industriarsi a cercare nella piazzola illuminata la chiave perduta nel vicolo buio, e frantumata poiché tutta ruggine.
Ciò che viveva è diventato serio oggetto di studio universitario. Le ricerche storiche proliferano, e ve n’è di eccellenti. Lo splendido costume femminile, che giusti musei custodiscono, ritrova corpi che l’indossano nel gioioso funerale pagano delle rassegne ad esso dedicate. Il resto è sogno, piagnisteo, retorica.
L’atto canoro è però vivo e vero. Canti nuovi spumeggiano, per virtù di singoli e di gruppi musicali, affianco ai canti della tradizione, mentre a San Demetrio Corone, ogni anno, in agosto, dal 1980, gli Arbërèshë ritrovano sé stessi nel Festival della loro canzone. Un concorso di nude poesie avrebbe in sulle prime richiamato una piccola frotta di curiosi, di snob, di innamorati; assai presto, però, le sabbie della noia lo avrebbero inghiottito nel silenzio che soffoca impietoso ciò che non trovò eco nei petti altrui. Musica e voci, per contro, danno vita alla lingua: non già perché forme e locuzioni passino dai testi musicati all’uso, bensì perché, ossessione o carezza d’amore, il canto resta.
Decenni di canzoni, dunque: banalità simpatiche, banalità pretenziose, atti di assai severa ricerca musicale, epicità incalzanti, plastiche ire prorotte da distonie sociali, picchi lirici in pure gocce d’oro, monellerie refrigeranti come spruzzi di mare… La lingua, poi: ora meticcia qual è in bocca all’ignaro svogliato arcisaggio parlante, ora reinventata e innobilita per voci antiche o lemmi dell’albanese d’Albania.
Non poche edizioni dell’evento troverà su YouTube chi cercasse: Festival della canzone arbëreshe. Per chi invece volesse conoscere ogni attimo saliente del Festival in questione, c’è un aureo libro di Gennaro De Cicco. Prefato dal professor Altimari dell’Università della Calabria e edito da Apollo, ha esso il titolo di Storia del Festival della Canzone Arbëreshe – Historia e Festivalit të Këngës Arbëreshe.
Un tempo atroce ci sospende a noi stessi. Le lacrime che la morte fa spargere sono rasciutte da una speranza innervata di terrore. Un canto è poca cosa, ed è tantissimo. Speriamo in nuova vita. In canti nuovi.