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Sportwashing

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Succede sempre con i grandi eventi sportivi: quando c'è un grande pubblico appassionato, si usa lo sport per catalizzare l'attenzione e usare l'evento, la risonanza mediatica, il giro d'affari, come leva politica per manfestare un'immagine propria different dalla realtà. 

Insomma, se una volta i panni sporchi si lavavano in casa popria, adesso ci si lava la faccia con un grande evento sportivo. Da qui, sportwashing, usare lo sport per lavare la propria immagine pubblica. 

Questa prassi politica, perchè poi di politica si tratta, non è certo nata oggi. Da Hitler con le Olimpiadi, a Mussolini, passando per tutta l'America latina, che neli anni cinquanta ha cavalcato la moda delle dittature militari che organizzavano mondiali di calcio, fino ad arrivare oggi in medio oriente. 

La posta in palio non è la coppa che tutti abbiamo in mente. Assolutamente. La posta in palio è il ruolo nello sccchiere geopolitico di ponte tra Oriente e Occidente. 

Il Qatar per questa Coppa ha messo in campo tutte le sue forze. Sei stadi sono stati costruiti da zero e uno è stato ammodernato. Sono nati un aeroporto, la metropolitana, strade, un centinaio di hotel, perché lo sport è la chiave per proporsi all’Occidente. Un esempio: Lusail (o Losail), città costruita negli anni Duemila, oggi è conosciuta per MotoGP e Formula1. E poi i grandi eventi: i Mondiali di ciclismo 2016, i Mondiali di atletica 2019, i Mondiali per club 2019 e 2020 vinti da Liverpool e Bayern. Oltre agli investimenti su cultura, partnership internazionali, lo sport è in prima fila.

La questione centrale però sono i diritti. In Qatar l’omosessualità è illegale, punibile con il carcere, e Human Rights Watch ha denunciato arresti e maltrattamenti ai danni della comunità Lgbt+. Si commenta da sola la frase di Khalid Salman, ambasciatore del Mondiale, alla tv tedesca Zdf:

L’omosessualità? È haram (cioè vietata dalla fede islamica) perché è un disturbo della mente.

Il mondo ha reagito e per giorni si è discusso delle fasce arcobaleno per i capitani, non consentite, del boicottaggio da maxischermo di Parigi, dei 16 calciatori dell’Australia che hanno chiesto cambiamenti su lavoro e diritti Lgbt+.

L’altro grande tema, infatti, è lo sfruttamento dei lavoratori. Il Guardian ha calcolato che, dal 2010 al 2019, sono morti sul lavoro almeno 6.500 immigrati da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka. Cifra su cui si è dibattuto, con le stime qatarine infinitamente inferiori. Amnesty ha denunciato condizioni di lavoro inaccettabili: operai in sistemazioni squallide, orari folli, condizioni terribili, con temperature a 40 gradi e oltre. Sotto accusa è finito l’intero sistema di lavoro, con racconti di immigrati costretti a pagare uno sponsor per l’ingresso nel Paese, passaporti confiscati dal datore, l’assenza di una tutela per la malattia. Il governo ha modificato la kafala - il sistema che governa il lavoro degli immigrati – ma il dibattito su quanto sia realmente cambiato è aperto. Con una domanda: il Mondiale ha aiutato le riforme o questo è solo sportswashing, sfruttamento dello sport per ripulire l’immagine del Paese?

Andrea Costantino Levote
Autore: Andrea Costantino Levote

Andrea Costantino Levote nasce come giornalista sportivo. Frequenta il corso di Reporting alla Scuola Holden, ma si imbuca anche alle lezioni di Cinema e di digital marketing. Vince il Premio Phoebe di Scuola Holden con il teaser Democracia. Racconta i ritratti dei giornalisti sportivi che lo hanno ispirato nel podcast "I Cantastorie", all'interno del programma Eutropia su Spotify. Diventa CEO di Jugaad Produzioni e con il cortometraggio FAME vince diversi premi internazionali, oltre a una menzione speciale al festival Ermanno Olmi. Oggi è CEO e founder di DIEZ- CREATIVE AGENCY, agenzia di comunicazione con la quale racconta il talento, occupandosi del digital marketing di start-up e di imprese.