Lo Jonio accoglie? Intervista ad Anna Franca Bilotto, operatrice dell'Accoglienza migranti
Nell'ambito dell'inchiesta finalizzata a capire se lo Ionio è territorio accogliente per i migranti, abbiamo intervistato Anna Franca Bilotto, presidente della Coop.sociale Le Nove Lune, ente attuatore dei progetti Sai di Trebisacce e Villapiana
Anna Franca Bilotto è la presidente della cooperativa sociale Le Nove Lune, attualmente ente attuatore del progetto SAI (Sistema accoglienza integrazione) dei comuni di Trebisacce e Villapiana. Opera nel settore dell’accoglienza migranti da oltre un decennio, e vanta una grande esperienza come operatrice della rete ex Sprar, ex Siproimi e ora denominata Sai. I progetti Sai di Trebisacce e Villapiana sono considerati, dal Servizio centrale per la gestione dei progetti, delle eccellenze a livello nazionale. Abbiamo voluto iniziare la nostra inchiesta nel mondo dell’accoglienza e della integrazione dei migranti rivolgendole alcune domande.
Con lei cerchiamo di capire se l’Alto Ionio calabrese è davvero una terra che sa accogliere.
Accoglienza e integrazione sono due concetti diversi e spesso confusi. Qual è la differenza?
«Accoglienza è una parola che già nella sua etimologia contiene un programma di vita. Essa deriva da “accogliere”, cioè dal latino ad-cum-legere, “raccogliere insieme verso. Nell scienze sociali, il termine integrazione indica l'insieme di processi sociali e culturali che rendono l'individuo membro di una società. Sostanzialmente i progetti SAI accolgono e integrano, perché fare solo accoglienza e come fare un progetto a metà. Dopo l'accoglienza inizia il lavoro più difficile che è quello di integrare la persona accolta nel tessuto sociale».
In base alla sua esperienza, sotto il profilo immigrazione, il territorio dell’Alto Ionio sa fare accoglienza? E anche attivo nell’integrazione?
«L’Alto Ionio sa fare accoglienza (Consideri che oltre a Trebisacce e Villapiana esistono progetti Sai anche Roseto e Cerchiara e a Plataci) ma dobbiamo lavorare ancora tanto sull'integrazione. Noi abbiamo ottimi esempi di integrazione ma ancora tanto dobbiamo fare».
I progetti ex Sprar, ex Siproimi, ora SAI con cui lei ha collaborato quanti beneficiari hanno accolto in quanti anni? Da quali paesi provengono? Si tratta di singoli o di famiglie?
«Poco meno di 200. I progetti SAI di Trebisacce e Villapiana accolgono nuclei familiari e uomini singoli. in questi anni abbiamo avuto beneficiari provenienti da Siria, Afganistan, Palestina, Nigeria, Bangladesh, Pakistan, Somalia, Mali, Congo, georgiani, Tunisia, Algeria, Egitto, ecc. ecc. Chi fuggiva da una guerra in atto, chi da persecuzioni per credo religioso, chi per l'appartenenza ad una minoranza etnica, chi è stato vittima di sfruttamento lavorativo e chi è passato per l'inferno della Libia. Sono tutte persone fuggite da un reale pericolo di vita».
Sotto il profilo della comunità musulmana qual è il livello di integrazione?
«Bisogna andare oltre gli stereotipi e le propagande politiche. Ci sono migranti musulmani, ci sono migranti cattolici, ci sono migranti atei e ci sono migranti di altre religioni. Chiedere se i migranti di religione musulmani sono integrati sottintende già che non lo siano. Dobbiamo allontanarci da qualsiasi dicotomia».
Ma al di là delle dicotomie, e rifugiando dai luoghi comuni, in base alla sua esperienza un migrante di fede mussulmana si integra prima o dopo, o nello stesso tempo rispetto ad un migrante che appartiene ad un’altra comunità religiosa?
«Paradossalmente per un migrante il problema dell’integrazione non è legato alla religione ma al colore della pelle. Essere di fede mussulmana, o indossare lo chador non rende più difficile l’inserimento. Invece chi ha difficoltà sono sicuramente i migranti la cui pelle è più scura. Per loro inserirsi è più complesso, al di là della religione. Anzi, posso affermare che con i migranti di fede mussulmana non abbiamo riscontrato problemi di inserimento».
Sotto il fronte lavorativo, sono riusciti a trovare impiego? E se sì, come si sono trovati nell'ambito delle realtà con cui collaborano? Il problema del capolarato che effetti genera?
«I beneficiari dei nostri progetti quando scelgono di rimanere sul territorio vengono accompagnati e orientati per la ricerca lavorativa. Noi attiviamo dei tirocini formativi e spesso questi si trasformano in contratti di lavoro. Il dibattito del 28 [Tenutosi in occasione della Giornata internazionale del migrante e delle III Edizione della Festa dei popoli a Trebisacce ndr] ha voluto mettere in evidenza proprio questo aspetto. Noi abbiamo attivato i tirocini ma poi sono stati i beneficiari che hanno dimostrato di avere competenze e capacità. Il problema del caporalato, inteso non come il caposquadra che sfrutta il lavoratore ma inteso proprio come lavoro nero, noi come progetto Sai non lo viviamo. Come sportello informativo gratuito invece si, ascoltiamo le richieste di tanti migranti, che non avendo un regolare contratto di lavoro non hanno diritto all'assistenza sanitaria, al rinnovo del permesso di soggiorno, solo per fare alcuni esempi».
C'è una dicotomia che caratterizza l'Alto ionio e la Calabria: la generosità e un certo atteggiamento guardingo nei confronti del diverso. L'ha riscontrato anche lei o l'hanno riscontrato i beneficiari dei progetti di accoglienza?
«La mia natura mi porta ad essere sempre ottimista, quindi: si abbiamo avuto episodi di razzismo, si abbiamo difficoltà a trovare case da affittare per i beneficiari, si capita che ci dicano non sono razzista ma.... per fortuna sono una piccola parte di persone con cui interagiamo. Certo quando poi ti scontri con questa piccola parte a noi fa tanto male… può immaginare ai diretti interessati».
L'accoglienza di massa, quella legata ai CAS (Centri accoglienza straordinaria), sembra un po' passata di moda. Vogliamo spiegare che tipo di fenomeno è stato, come ha influenzato la percezione della comunità in relazione alla migrazione e perché almeno sul territorio è venuto a spegnersi?
«I CAS centri di accoglienza straordinaria, non sono passati di moda. Ci sono sempre. I migranti quando arrivano, via mare o via terra, vengono accolti per il tempo necessario legato alle procedure di accertamento dei relativi requisiti in strutture di primo soccorso e accoglienza, hotspot. Si tratta di aree designate, normalmente in prossimità di un luogo di sbarco, nelle quali, nel più breve tempo possibile e compatibilmente con il quadro normativo italiano, le persone in ingresso sbarcano in sicurezza, sono sottoposte ad accertamenti medici, ricevono una prima assistenza e l’informativa sulla normativa in materia di immigrazione e asilo, vengono controllate, pre-identificate e, dopo essere state informate sulla loro attuale condizione di persone irregolari e sulle possibilità di richiedere la protezione internazionale, foto-segnalate. Tra gli hotspot pensiamo ad esempio a quello di Lampedusa. Terminate le procedure di identificazione e foto-segnalamento, i migranti che hanno manifestato la volontà di chiedere asilo in Italia vengono trasferiti presso le strutture di accoglienza di primo livello, dislocate sull’intero territorio nazionale ove permangono in attesa della definizione della domanda di protezione internazionale, che si differenziano in: Centri di Prima Accoglienza (CPA), ad esempio quello di Isola di Capo Rizzuto e in CAS Centri Accoglienza Straordinaria (CAS). Queste sono strutture reperite dai Prefetti a seguito di appositi bandi di gara, come dice il nome stesso sono centri di accoglienza straordinaria e sono ancora presenti in tutto il territorio nazionale. Infine ci siamo noi, del progetto Sai, che facciamola Seconda accoglienza. SAI sta per sistema di accoglienza e integrazione, per iniziare il vero percorso di insediamento».
Cosa manca e cosa si può fare sotto il profilo dell'integrazione?
«Cosa manca? Non so. Cosa possiamo fare? Guardare l'altro senza giudicarla/o per come veste, per come mangia, per la religione che pratica, per il colore della pelle, per la provenienza geografica, insomma sono tante le cose che possiamo fare o forse semplicemente guardare l'altro e vedere una donna, un uomo, un bambino, punto. Non vedere la diversità ma la comunanza. Le assicuro che siamo tutti ma proprio tutti uguali. Amiamo, soffriamo, siamo allegri e siamo tristi, siamo generosi e siamo avari. SIAMO».