Le vigne e il tempo dell’uva
Uno stralcio della vita degli anni ’50-’60, quando il tempo in casa era regolamentato dal ritmo cadenzato del lavoro nei campi

MANDATORICCIO - Nel patrimonio familiare, la presenza di tre appezzamenti di terreno trasformava, nel quotidiano, la nostra vita in un continuo susseguirsi di stagioni e calendario alla mano era necessario provvedere dalle piccole alle grandi attività stagionali, in particolar modo per i lavori nella vigna che non avevano sosta. Il tempo in casa era regolamentato dal ritmo cadenzato del lavoro nei campi, come pure dalla prassi imposta dalla tradizione contadina spesso condizionata dalle fasi lunari, secondo cui in agricoltura la luna determinava il suo influsso sulle coltivazioni, sulla raccolta, sulla maturazione, sulla potatura e perfino sull’imbottigliamento del vino.
Il giorno, la notte, le stagioni, il raccolto e la semina erano tutti elementi caratterizzanti anche le diverse, e a volte colorite, dissertazioni generate a tavola tra gli amici, i parenti e gli operai che a turno davano una mano al disbrigo dei diversi lavori agricoli. Insomma, ognuno diceva la sua sulla coltivazione legata e influenzata dal calendario lunare. La vigna per la nostra famiglia era anche elemento di sostentamento e da sempre quella che maggiormente ci teneva impegnati nel lavoro tanto erano le pratiche agricole e le cure ad essa riservate cadenzate nell’arco dell’intero anno.
Gli anni ’50-’60, ai quali i miei ricordi fanno riferimento, furono anni importanti per la qualificazione dei nostri terreni e soprattutto per quello della Chiusa comprato da mio padre perché molto vicino a casa, ma la cui condizione non era poi così tanto entusiasmante, visto che da molti anni non veniva coltivato ed era tutto pieno di rovi, erbacce ed anche parti franate che andavano consolidate e sistemate; ma in compenso il terreno era ricco di acqua, e non era poca cosa, e che in prospettiva sarebbe diventato meraviglioso sotto le continue cure e interventi programmati da mio padre Edoardo, che lo resero nel tempo in grado di produrre ottima uva dall’esteso vigneto realizzato, abbondante olio dall’impianto di un nuovo uliveto e tanta frutta dal frutteto impostato in modo che fossero presenti le diverse specie e varietà di frutti ed anche con buona parte di terreno destinato alla coltivazione dell’orto.
Le stagioni si susseguivano una dietro l’altra determinando gli stadi e i diversi momenti del corso vegetativo delle nostre vigne con i suoi vitigni e i filari di viti, quasi sempre carichi di ottima uva, moscato, zibibbo, malvasia, magliocco, gaglioppo, greco nero e greco bianco, mennevacca. Da marzo a ottobre la vigna viveva il periodo più vigoroso del ciclo vegetativo, mentre dopo la vendemmia entrava in un periodo di pausa che si protraeva fino a febbraio.
Ricordo mio padre che teneva molto affinché tutte le operazioni venissero fatte nel giusto tempo per fare in modo che la vigna producesse buonissima uva, e che il prodotto ottenuto fosse sempre di ottima qualità per dare al mosto e quindi successivamente alla fermentazione, un vino, dall’ottimo aroma accompagnato da meravigliosi profumi che ne potessero determinare il giusto bouquet. Sì proprio quel giusto insieme di aromi e profumi che papà cercava di percepire, quale novello ‘enologo’, al momento della spillatura con il vino che arrivava nella caraffa mangiandosi la schiuma e successivamente dopo la maturazione e la decantazione veniva conservato nelle damigiane di vetro o imbottigliato. Operazioni che faceva degustando il vino e accompagnando il bicchiere al naso, azioni delle quali mi rendeva attivamente partecipe anche per conoscere il mio giudizio olfattivo e gustativo a seguito della degustazione in cantina.
Ma degustare il vino e apprezzarne la qualità faceva venire in mente le numerose operazioni colturali alle quali nell’arco dell’anno la vigna veniva sottoposta. Attività necessarie e basilari sotto la supervisione di mio padre sempre impegnato a portare le viti a una buona produzione di uva e soprattutto di qualità.
Dopo la lunga fase di riposo, nel mese di gennaio i vigneti erano sottoposti a potatura, una operazione che, io ricordo, veniva eseguita durante la sosta vegetativa dei vitigni orientativamente tra il mese di dicembre e febbraio. Papà insieme agli operai, armati di forbici, cesoie e seghetti, ormai considerati di famiglia poiché di fiducia, per come esprimevano il loro lavoro, e perché erano anni che lavoravano per noi, provvedeva alla potatura dei vigneti, sistemando adeguatamente le viti in modo da dargli anche la giusta forma, operazione alla quale più tardi partecipavo anche io con molto interesse avendo imparato abbastanza dai suggerimenti anche di mia madre. I filari erano controllati pianta per pianta, separando il tralcio considerato sano nel portare uva buona, che veniva separato dagli altri giustamente eliminati.
I tralci tagliati, comunemente noti come “le sarmente” (‘a saraménte), solitamente venivano utilizzati come materiale da ardere, ma essendo tanta la quantità era abitudine che buona parte venisse trasformata in carbonella e conservata nei sacchi per essere poi utilizzata come combustibile durante l’inverno per alimentare i bracieri di una volta posti al centro della stanza per scaldare l’ambiente. Non mancavano gli anni in cui la potatura iniziava anche a dicembre e terminava a febbraio. Ultimata la potatura la vigna veniva poi sottoposta alla legatura dei tralci, operazione delegata a mia madre che attrezzata di mazzetti di rafia collocati nel grembiule e il fazzoletto sulla testa si muoveva con disinvoltura nei filari per sistemarli e ancorarli al palo di sostegno. Nel periodo tra febbraio e marzo la vigna veniva solitamente concimata allo scopo di dare alle viti le necessarie sostanze nutrienti e favorirne la crescita e la produzione, ma era anche l’occasione per provvedere alla sostituzione dei pali eventualmente malandati.
Con la stagione primaverile le viti iniziavano a germogliare e necessitavano di alcuni interventi importanti ai quali anche in tal caso era solitamente demandata la mamma, esperta nei lavori orientati ad eliminare i succhioni, ossia tutti quei germogli che si riproducevano alla base della radice togliendo energia alle viti, come pure le pratiche di cimatura e sfogliatura o ancora quelle con la quali si provvedeva alla eliminazione di quanto in eccesso per consentire una maggiore circolazione di aria e di luce necessaria ai grappoli in formazione, cercando pure di ridurre eventuali attacchi di malattie o infezioni fungine molto dannose ai grappoli in formazione. Operazioni che solitamente venivano fatte anche fino a giugno considerata la consistenza di terra coltivata a vigneto nelle diverse proprietà di famiglia.
È superfluo ricordare che la vigna nell’arco dell’anno veniva sottoposta a zappatura. Una pratica che permetteva di dissodare il terreno intorno alle viti rimuovendone, con la zappa, le erbacce allo scopo di rendere migliore sia la bonifica del terreno che la sua areazione. Inoltre, con una serie di operazioni fatte da aprile a settembre si provvedeva al controllo della forza e alla robustezza delle viti.
Dopo la fase della fioritura, e quindi della formazione del grappolo, seguivano, sempre fatte da mamma, ulteriori operazioni finalizzate ad eliminare le foglie coprenti i grappoli e ad eliminare la parte apicale dei tralci, operazione eseguita tra la fine di giugno e luglio, insieme alla riduzione dei grappoli allo scopo di migliorare la produzione. In ultimo si provvedeva all’applicazione di trattamenti antiparassitari contro l’oidio e la peronospora che i miei facevano utilizzando lo zolfo in polvere e il verderame. Le viti venivano così irrorate sulle foglie con l’aspersione di polvere di zolfo e del verderame che veniva irrorato con una pompa a mano trasportata sulle spalle passando tra i filari.
Un anno mi rimane particolarmente impresso ed è il 1965. Avevo appena 15 anni. Le calde giornate di luglio, facevano sentire tutta la loro canicola, ma nonostante tutto alcune operazioni preparatorie alla vendemmia erano necessarie. Ormai era consuetudine, concluse le attività didattiche, partecipavo attivamente ai lavori di famiglia occupandomi, insieme alla mamma e a mio padre, anche della cura dei terreni.
Il mio impegno era comunque soprattutto di compagnia in questo genere di operazioni che invece toccavano alle abili mani di mamma.
Tre le campagne coltivate ad uliveto e vigneto: Condoleo, San Fili, Chiusa e quell’anno, l’antico rituale della vendemmia si prospettava abbastanza faticoso per via della copiosa produzione di uva. Un rituale che si praticava dalla metà di settembre alla fine di ottobre, in conseguenza della maturazione dell’uva cadenzata da fattori climatici e dalla esposizione al sole. Di buon mattino, con il sole appena spuntato, ci muovevamo da casa, a piedi, alternando le diverse destinazioni per preparare la vigna alla vendemmia. Allora non vi era la disponibilità di autovetture e l’unico mezzo di trasporto erano l’asino e il mulo.
Condoleo e San Fili erano appezzamenti di terra abbastanza distanti dal paese dotati entrambi di modeste costruzioni rurali per il provvisorio e immediato riparo e attrezzati di palmento e torchio per la spremitura dell’uva. Il mosto prodotto veniva trasportato negli otri con i muli alla cantina del paese. Per raggiungere questi luoghi era necessario praticare strade accidentate, ripide e insicure per cui era necessario la massima prudenza e il controllo anche nel camminare.
La proprietà di contrada Chiusa, invece, era quella più vicina al paese, pochi metri in linea d’aria dall’abitazione. Come già accennavo comprata da mio padre, Edoardo, negli anni ’60 allo scopo di conseguire il suo sogno, quello di realizzarsi anche come coltivatore e allevatore visto che durante la giornata lavorava come maestro segantino del ciocco per la produzione di abbozzi per pipe nella segheria di famiglia. In questa ultima proprietà era pure presente una piccola costruzione rurale dotata di forno, e di locali adeguati per l’allevamento delle galline, dei conigli e del maiale, ma priva di palmento, pertanto, l’uva raccolta veniva trasportata in paese con il mulo nell’apposito locale, vicino casa, dotato di cantina e attrezzato adeguatamente anche per la pigiatura, visto che oltre al palmento e al tinello era presente anche un grande torchio per la spremitura delle vinacce trasportato da mio nonno materno, addirittura durante il ritorno da uno dei suoi viaggi in America.
Quella mattina di luglio, il programma prevedeva la scarpinata verso Condoleo (Cannulíu), il cui toponimo deriva [dal lat. Condolēre, comp. di cum. e dolēre ‘affliggersi’]. Condŏleo significa “dolersi assai”. La contrada, che si sviluppava su due livelli: Condoleo Soprano e Sottano, si trovava esposta ad Est del paese da dove si poteva ammirare il bellissimo panorama sottostante con la veduta sullo Ionio, Scala Coeli, San Morello e Crucoli.
Proprio per la sua esposizione la maturazione dell’uva a Condoleo era più anticipata rispetto alle altre due contrade. La parte di Condoleo Soprano era utilizzata prevalentemente per la coltivazione di vigneti, castagni e frutteti di pesche, pere e fichi, mentre in quella di Condoleo Sottano, le coltivazioni presenti oltre alla vite e alla frutta registrava anche quella dell’ulivo. La contrada era ricca anche di vegetazione boschiva con alberi di leccio e di macchia mediterranea, fichi d’india e lupini, come spontanea era pure la presenza dei funghi (mucchijalúri) poiché si riproducono sotto l’arbusto del mucchio e quelli detti (ericalúri) in quanto si trovano sotto la pianta dell’erica.
In quei giorni l’afa era pesante già di primo mattino, e il tragitto per me e mamma Francesca non fu una semplice passeggiata, ma un’impresa visto che bisognava attraversare la zona detta ‘e ri Catanánni, dove era abbastanza facile avvertire la presenza dei cinghiali ed altre specie di selvaggina. Sentieri impervi si snodavano su luoghi di grande interesse naturalistico e gole profonde a strapiombo si ponevano lungo il nostro percorso, che allo stesso tempo era inebriato da una mescolanza di profumi provenienti dagli arbusti e dalle piante della folta macchia mediterranea ricca di cisto (‘u múcchiju) e di lentisco (‘u scínu), posto sui lati del viottolo molto sdrucciolevole, dove camminare era difficile e pericoloso.
Raggiunto il fiumiciattolo nel fondo valle, lì dove il Vallonello scorreva proseguendo il percorso fino a terminare la sua corsa nella fiumara dell’Arso, superato il vallone, io e la mamma proseguimmo affrontando la seconda parte del percorso in salita per raggiungere la proprietà, passando tra due costoni impervi della montagna, uno di fronte all’altro, tanto da formare una gola molto stretta, che i miei genitori, ogni volta che passavamo da lì indicavano come ‘a Scannélla ‘e Cannulíu o ‘e ri gatti.
Giunti sul posto di buon’ora, mamma Francesca dopo essersi preparata secondo il rituale (scarponcini, fazzoletto in testa per proteggersi dal sole e il grembiule con alcuni arnesi e la rafia) iniziò immediatamente ad attraversare i filari e sistemare i pampini (spalagráre), ossia a sfrondare le viti, alleggerendole dai tralci portanti la vegetazione improduttiva cresciuta tra foglia e grappolo. Una operazione che oramai mamma faceva, se si può dire, ad occhi chiusi, spogliando la vite dalle foglie e dai tralci in eccesso e inutili. Ogni volta mi ripeteva, che tale pratica agricola doveva essere fatta durante la maturazione dell’uva in modo che la stessa potesse così avere più sostanze prima della vendemmia.
Fu così per molti giorni. Per noi due, la sveglia suonava molto presto al mattino, prima della lunga scarpinata e del ritorno nel tardo pomeriggio al calar del sole. Nelle ore più calde un po’ di refrigerio lo trovavamo sul davanti della piccola costruzione rurale oppure sotto i filari delle viti, ormai abbastanza alti, grazie all’ombra dei pampini.
La giornata scorreva veloce e tra una cosa e l’altra arrivò anche il momento della pausa pranzo alla quale faceva da corollario l’abbondante colazione approntata con cura dalla mamma con il piatto di tradizione a base di baccalà, i peperoni con le patate fritte e gli abbondanti affettati di salumi preparati in casa insieme al tipico formaggio pecorino sempre presente in ogni occasione.
Uno di quei caldi e infuocati giorni di luglio, insieme a noi, ad aiutare mamma, vennero alcune amiche di famiglia perché tutto potesse concludersi il prima possibile, ma il lavoro veniva fatto sempre sotto l’occhio vigile di mamma. Tutte col fazzoletto in testa per proteggere la testa dai cocenti raggi del sole si muovevano tra i filari come in un labirinto. La giornata scivolò via tra racconti, scambi di opinioni riguardanti la sfera femminile, risate e tanti canti oltre che in un momento conviviale intorno ad una ricca colazione come sempre preparata da mamma.
Oggi il vino “Condoleo”, ottenuto dalle uve dell’omonima contrada, è un vino autoctono locale di zona geografica tipica. Per i non addetti ai lavori, “l’indicazione geografica tipica, meglio nota con l’acronimo IGT, è un marchio di origine che qualifica i vini da tavola prodotti in determinate regioni o aree geografiche secondo un generico disciplinare di produzione (autorizzato per legge); essi possono riportare sull’etichetta, oltre all’indicazione del colore, anche l’indicazione del o dei vitigni utilizzati e l’annata di raccolta delle uve.
Le operazioni di preparazione proseguirono per tutto il mese di luglio e agosto anche nelle altre contrade San Fili (Santuhfíalu) il cui toponimo del luogo deriva “dal greco philos che significa “amico”. Un territorio ricco di arbusti di cisto e piante ghiandifere come il leccio e l’alaterno (litiárnu). Il terreno, molto fertile, veniva utilizzato in maniera estesa per la coltivazione dell’olivo e della vite. Nella zona non mancavano però i frutteti, soprattutto di pesche, pere e fichi che in quelle occasioni venivano raccolti e ognuno ne prendeva in abbondanza portandone a casa. Buona anche la presenza dei castagni, mentre alla Chiusa, la maturazione dell’uva era più tardiva. Ora che tutto era pronto si aspettava la successiva fase quella della vendemmia che nella nostra famiglia diventava un rito al quale non bisognava mai mancare.