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Quando nelle campagne c'erano servi e padroni... poi arrivarono i moti di Melissa

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Nell’immediato dopoguerra i casini di campagna erano delle piccole comunità autonome a ridosso della città vera e propria.

In quei posti si nasceva, si cresceva, ci si sposava, si invecchiava e si moriva.

La conformazione stessa della struttura dei casini era sempre la stessa. Attraversato il portone di ingresso, si apriva una corte con il palazzo padronale da un lato, le camerette dei contadini dall’altro ed in mezzo, a dividere le due zone, la casa del fattore, uomo di fiducia del padrone e controllore dei contadini.

All’esterno si apriva sempre una cappella religiosa dove ogni domenica si celebrava la santa Messa.

I contadini, maschi e femmine, lavoravano con le braccia, mentre il signorotto proprietario del casino e del terreno intorno aveva ogni diritto, anche quello di decidere su chi tenere e chi mandare via dal proprio podere, senza dover per questo, dar conto a nessuno.

Le motivazioni degli allontanamenti erano le più varie. Qualche volta si accusava la famiglia del contadino di ruberie varie, altre volte di poca resa nel lavoro e non c’era nessun giudice o avvocato che potesse difendere chi doveva subire queste angherie. In alcune occasioni le sopraffazioni avevano carattere diverso. Magari una bella ragazza figlia di contadini si “permetteva” di fare la schizzinosa col padrone e per questo metteva a rischio anche la sopravvivenza stessa dei suoi familiari in quel determinato podere.

Il Sindacato non c’era ancora e se c’era non era ancora arrivato in tutti i casini di campagna.

I moti di Melissa, i primi in Calabria, non avevano ancora fatto breccia nel cuore e nella testa dei contadini dell’alto Jonio cosentino.

Il tempo era determinato non dall’orologio ma dal sole. Si lavorava dall’alba al tramonto ed anche le stagioni avevano i propri ritmi e le proprie peculiarità.

La famiglia contadina si riposava solo alla domenica. Nel giorno del Signore ci si dedicava solo ad attività più “leggere”. Le donne con le loro ceste, portate con maestria sulla testa, andavano al fiume a lavare i panni o facevano il pane che doveva durare una settimana intera.

Ogni attività, anche quella più impegnativa e faticosa, era motivo di festa.

Le donne col loro pesante carico di panni sulla testa non si facevano pregare ad intonare canzoni e filastrocche sia mentre si andava e tornava dal fiume, sia mentre si strofinavano quei vestiti e quelle lenzuola che avevano bisogno di una buona dose di energia per tornare il più possibile candidi, così come mentre si impastava la farina per il pane o si ammazzava il maiale per le provviste invernali.

Il pane veniva prodotto per due o tre famiglie imparentate tra di loro ed ogni donna aveva il suo bel da fare per impastare a mano la farina nella “mailla”, aspettare la lievitazione, accendere il forno, provare il grado di calore, infornare e sfornare quel profumato pane casereccio.

Di solito prima dell’informata vera e propria si provvedeva a provare il forno con poco impasto e la “pitta ‘mpigliata” veniva data in regalo al più discolo dei bambini che stavano sempre a giocare nei dintorni.

Bastava un filo d’olio ed un cucchiaino di zucchero su quella pitta calda e fumante per assaporare una prelibatezza unica al mondo.

Nulla veniva buttato via. Addirittura la buccia dei fichi d’India e quella del melone, venivano essiccate al sole e poi condite con olio ed aceto per delle ottime insalate invernali.

Ogni motivo era buono per stare insieme in allegria. La solidarietà era una cosa normale.

Le famiglie di anziani senza figli non correvano il rischio di morire di stenti.

Ognuno portava loro il frutto del proprio lavoro. Pane fresco, provviste e tutto quel che serve.

La pensione di vecchiaia sarebbe venuta alla luce da lì a poco, ma i vecchi non si abbandonavano mai a loro stessi.

Oggi quelle piccole comunità si sono perse. Ogni casino di campagna è in uno stato di abbandono notevole e con la decadenza di quelle mura, se ne vanno in decadenza anche quei valori importanti che la gente portava dentro di sé.

In copertina: Renato Guttuso, Contadini al lavoro

Gino Campana
Autore: Gino Campana

Ex sindacalista, giornalista, saggista e patrocinatore culturale. Nel 2006 viene eletto segretario generale regionale del Sindacato UIL che rappresenta i lavoratori Elettrici, della chimica, i gasisti, acquedottisti e tessili ed ha fatto parte dell’esecutivo nazionale. È stato presidente dell’ARCA territoriale, l’Associazione Culturale e sportiva dei lavoratori elettrici, vice presidente di quella regionale e membro dell’esecutivo nazionale. La sua carriera giornalistica inizia sin da ragazzo, dal giornalino parrocchiale: successivamente ha scritto per la Provincia Cosentina e per il periodico locale La Voce. Ha curato, inoltre, servizi di approfondimento e di carattere sociale per l’emittente locale Tele A 57 e ad oggi fa parte del Circolo della Stampa Pollino Sibaritide