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u vicinanzə: storie, aneddoti e tradizioni di una società che non c'è più

6 minuti di lettura

di Martino Rizzo

In una città il quartiere è un nucleo autonomo per tradizioni o fisionomia all'interno di un agglomerato urbano e tante città hanno oggi un’organizzazione amministrativa che prevede il quartiere quale ente giuridico intermedio tra il cittadino e l’amministrazione comunale. A Rossano però la parola “quartiere” non ha mai riscosso un grande seguito e al suo posto si è sempre usato il termine “vicinanzə”, il vicinato.

Il vicinanzə era costituito dall’insieme delle famiglie che vivevano in abitazioni legate tra loro dal vincolo della contiguità fisica e i rapporti di vicinato, che si instauravano tra queste famiglie, avevano un legame più stretto rispetto agli  impersonali rapporti di quartiere, venivano considerati quasi una parentela allargata: «siamo dello stesso vicinanzə», «siamo cresciuti nello stesso vicinanzə», erano modi di dire che una volta si ascoltavano spesso e che certificavano questa interpretazione solidale dei rapporti sociali.  Per dirla in poche parole si può affermare che il vicinanzə, a differenza del quartiere, era un rione con un’anima che si riconosceva nelle persone, nelle case, negli oggetti, nei suoni, nei rumori, nei santi protettori del rione, nella parrocchia, nei colori e che si portava dietro la memoria degli anziani che ci erano vissuti, i ricordi delle giornate spensierate trascorse insieme, i dolori di una famiglia che automaticamente erano diventati i dolori di tutta la piccola comunità, gli affetti costruiti con anni di contatti e di solidarietà reciproca. Insomma il vicinanzə si contraddistingueva per una memoria sociale che segnava l’identità esistenziale degli individui che vi risiedevano e che diventava il collante della comune appartenenza a quella zona della città, con tutto ciò che questa comportava: frequentazione degli stessi ambienti, comunanza di interessi, di passatempi, di giochi, di soccorso e l’aiuto reciproco nei momenti di bisogno e allo stesso tempo la condivisione delle gioie.

Dice Vito Teti nel suo bel libro “La restanza”, il «luogo è un insieme di relazioni, di legami magari controversi e mutevoli, eppure indispensabili. Nel paesaggio acronico dell’infanzia si formano la nostra esperienza estetica e percettiva e la nostra soggettività, il rapporto con gli oggetti e le relazioni con il mondo e con le persone».

Le donne erano le prime cultrici del rapporto di vicinanzə, accomunate dalla frequentazione della stessa parrocchia, dal recarsi alla medesima fontana pubblica per approvvigionarsi dell’acqua necessaria per le pulizie di casa, dall’andare a fare la spesa alle stesse botteghe, dal prestito reciproco di cose: «vai da  … e fatti prestare una cipolla che sono rimasta senza ..», creando così una rete di cooperazione e solidarietà. La vicina all’occorrenza poteva diventare anche una baby sitter ante litteram per guardare i figli. Bastava dire al bambino «vai da zia … e fatti dare un po’ di trattenimi» ma la zia-vicina non riusciva a trovarlo proprio questo benedetto “trattenimo” e così il bambino doveva aspettare un bel po’ prima di essere accommiatato.

Gli uomini a loro volta la sera si ritrovavano nella stessa osteria presente nel vicinanzə per rilassarsi dopo una giornata di lavoro giocando a carte e bevendo vino. E anche i ragazzi del rione si riunivano per i giochi che facevano insieme e addirittura si organizzavano in bande che sfidavano le bande dei quartieri diversi. A Rossano non c’è mai stato come a Siena e a Firenze un “palio”, né un “calcio storico” per la competizione tra quartieri, ma teste rotte a sassate nelle guerre tra le bande di vicinanzi diversi sì, sul modello di quelle dei ragazzi della via Paal.

Le feste contribuivano a cementare questi rapporti di vicinato. Innanzitutto gli onomastici durante i quali, poiché i nomi erano conosciuti da tutti, i vicini si presentavano spontaneamente a casa del festeggiato per fare gli auguri e portare il “presente”. Infatti il giorno dell’onomastico si andava a fare visita alla famiglia del festeggiato portando un dono, appunto “il presente”, e gradendo la “spasa”, il vassoio con un dolcino e il “biccherino” che veniva loro offerto. Per alcuni onomastici la festa arrivava addirittura a essere collettiva, come avveniva il 19 marzo, festa di San Giuseppe. Quel giorno, la famiglia che annoverava al suo interno un Giuseppe, preparava “u mit” che consisteva in una pietanza realizzata con taglierini fatti in casa conditi con ceci cotti insieme a pezzi di baccalà di cui alcune porzioni venivano inviate in segno di omaggio alle altre famiglie del vicinanzə. Per Sant’Antonio, le famiglie che avevano al loro interno un membro che si chiamava Tonino, preparavano i “paniceddi e Sant’Antonu”, dei piccoli panini che venivano fatti benedire e poi distribuiti al vicinanzə.  Nella cultura del vicinanzə i doni acquisivano una grande valenza in quanto facevano nascere obblighi morali che rafforzavano ancora di più il legame sociale: si diceva «si vo ca l’amicizia si mantena nu panareddu va e n’atri vena» e in una società agreste, un caciocavallo oppure una “pezza di formaggio” fungevano, da «unità minima di dono». A proposito di doni un’altra regola non scritta recitava che «a pitta cchiù ranna a ra mala vicina» a significare che alla vicina più difficile, quella più brontolona, quella più attaccabrighe, per tenerla buona bisognava inviare il regalo migliore.

I “Fuochi di San Marco” erano un’altra occasione di convivialità collettiva durante la quale veniva apparecchiato un grande tavolo nello slargo del rione sul quale ognuno metteva in comunione la pietanza che aveva preparato e soprattutto tanto, tanto vino. L’uccisione del maiale era un ulteriore evento che accomunava i vicini. Così come l’aiuto reciproco che si davano i vicini nel «fare i pummalori”» la provvista della salsa dei pomodori e dei pelati per l’inverno.

Nel rione non mancava inoltre il senso di protezione e supervisione sui più piccoli da parte di tutti i componenti della grande famiglia allargata che era il vicinanzə.  Capitava che i ragazzi magari speravano di non essere stati visti dai genitori quando avevano fatta una marachella, ma il babbo – una volta tornato a casa − immediatamente richiamava il bambino per quanto aveva combinato. Infatti un vicino aveva pensato bene di avvertirlo. E quando una mamma sgridava a voce alta un figlio, dalla casa di fronte si accodava la vicina con la raccomandazione fatta a distanza al giovane o alla giovane: «Carupì, un farə arraggiare a mammita

Spesso il rapporto di vicinato veniva rafforzato dal “vincolo del San Giovanni” con comparaggi che nascevano in occasione di battesimi, cresime e matrimoni. I padrini e i compari costituivano una via di mezzo tra la figura dell’amico e quella del parente, una “parentela spirituale” che veniva anche suggellata con l’attribuzione del termine di “zio” e “zia”.

In caso di sgarbi e di non rispetto del “galateo del vicinanzə” i rapporti potevano però deteriorarsi, degenerare e diventare molto difficili con le donne che arrivavano ad accapigliarsi e a scalciare tra di loro per strada e gli uomini che “si tiravano di coltello”.

Ovviamente nel vicinanzə c’erano famiglie che per nobiltà, prestigio, censo, studi, stavano nella considerazione sociale dell’epoca un gradino sopra le altre. E il rispetto verso di loro diventava quasi ossessivo. Alcuni vecchi nel passare davanti alle case delle famiglie importanti del rione si levavano il cappello, anche se non c’era nessuno a osservarli, in segno di un rispetto atavico. Il pomeriggio si cercava di non fare rumori per non disturbare il riposo del “signurino” del rione che certe volte era costretto a intervenire con la sua autorevolezza per riportare la pace tra famiglie che si erano “scerrate”. Era considerato un grande onore far battezzare o cresimare un figlio a un rappresentante di queste famiglie importanti.

Insomma era nel vicinanzə che nasceva la prima forma di solidarietà fuori dalla famiglia, «solidarietà umana, esistenziale, e cioè di una solidarietà precivica e prepolitica, che per lo più non si traduce in organizzazione economica e politica: stenta a farsi impresa produttiva (cooperativismo ecc.) e a trasformarsi in impegno civile. È una solidarietà che resta estranea alle istituzioni e che quasi mai s’incontra con i progetti di trasformazione delle condizioni della vita sociale. Resta sempre al di là delle congetture politico-istituzionali. Si colloca in uno spazio diverso, quello esistenziale, personale, umano, dove vigono costumi forgiatisi sui tempi lunghi della storia. Di qui quella sorta di schizofrenia che è dato riscontrare nei comportamenti dei meridionali: senso profondo di partecipazione alle vicende della vita degli altri, condivisione dei dolori e delle gioie altrui, disponibilità al mutuo soccorso, da una parte, e atteggiamenti individualistici sul piano economico, civile e politico, dall’altra». (da Mario Alcaro, Sull’identità meridionale, Bollati B. Torino 1999)


Storie d'Altri tempi è un progetto dell'Eco dello Ionio e dell'associazione Rossano Purpurea, nato per costruire un racconto corale di memorie cittadine tra Corigliano e Rossano. I contenuti sono frutto di un patrimonio orale di ricordi, o di ricerche storico- antropologiche, per lo più inedite, che gli autori hanno accettato di condividere con noi. Una narrazione unica, antica e nuova allo stesso tempo, della nostra identità.

Redazione Eco dello Jonio
Autore: Redazione Eco dello Jonio

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