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Quell'irrefrenabile desiderio di giocare a pallone: quando un tempo si viveva di niente e c'era tutto

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In poco più di mezzo secolo cambia il mondo e con esso cambiano anche i giochi dei bambini. I sessantenni di oggi rimpiangono quei giochi di fantasia, di destrezza e di furbizia, che abitualmente facevano per le strade, ma non sanno opporsi ai giochi di oggi, maggiormente quelli al PC o al telefonino dei bambini di oggi.

Sessant’anni fa dalle nostre parti, come del resto anche dappertutto nel sud Italia, i giochi dei bambini erano soprattutto di fantasia e di movimento.

I giocattoli non erano ancora super evoluti come quelli odierni, la plastica cominciava a fare capolino solo da poco tempo e l’informatica con i suoi giochi tecnologici non si conosceva ancora.

Il Paese non aveva ancora superato il trauma della guerra, ma cominciava a risollevarsi verso quello che sarebbe diventato il boom economico italiano.

Allora i bimbi dovevano fare di necessità virtù ed impegnarsi ad inventare giochi e passatempi, per far trascorrere le assolate giornate estive ed i grigi pomeriggi invernali.

Ogni gioco aveva il suo periodo di riferimento, ma uno che non ha mai conosciuto crisi, almeno per i maschietti, era il “pallone”. Il calcio andava bene sempre, anche quando un pallone vero e proprio non c’era; spesso si raccoglievano stracci e carta per raggomitolarli strettamente e legarli con uno spago. Quello era il pallone di chi, ed erano in tanti, non potevano permettersi di comprare un prezioso pallone vero.

I palloni si distinguevano tra loro a seconda del peso e, chiaramente del prezzo.

Il “Supertele” era quello che costava di meno, ma era leggerissimo e la precisione del calcio non esisteva. Bisognava affidarsi alla fortuna. Il “Supersantos” era il pallone medio, abbastanza pesante, ma il migliore di tutti era il “Tango”, pesante abbastanza per sembrare un vero e proprio pallone da calcio in cuoio. Chi aveva la fortuna di farsene regalare uno lo teneva gelosamente riservato al punto che spesso si accontentava di giocare con un “Supertele” pur di preservare il “Tango”.

Di palloni se ne consumavano tantissimi anche per “merito” degli abitanti nei vari rioni i quali, ogni volta che il pallone finiva sul proprio terrazzo, avevano l’accortezza e la gentilezza di ributtarlo ai ragazzi, ma tagliato in due parti.

I campi di gioco non erano certo pianeggianti o in erba. L’asfalto o addirittura il selciato erano i campi di gioco dell’epoca e le ginocchia sbucciate erano quasi un segno di eroismo. Erano pochi quelli che avevano compreso se era meglio giocare in salita o in discesa; in salita si faceva più fatica ma il pallone era controllabile, in discesa il pallone sfuggiva ed era preda degli avversari, ma queste furbizie erano di pochi.

Quando non era disponibile un pallone, si optava per altri giochi. Giochi che non richiedevano attrezzature e strumenti come il nascondino (ammucciaredd) e l’acchiapparella, oppure quelli che si potevano fare con mezzi di fortuna come il barattolo (a rametta), mazza e pizzo o le frecce.

Trascurando per un attimo il nascondino e l’acchiapparella che sono conosciuti ancora oggi, il gioco più ricercato era quello della “rametta”. Si tratta di una versione evoluta del nascondino: il barattolo si piazzava in un punto prestabilito della strada. Tirando al tocco (la morra) si stabiliva chi dovesse andare a raccogliere il barattolo dopo averci assestato un calcio che lo mandava il più lontano possibile.

Mentre il malcapitato andava a raccogliere il barattolo, gli altri andavano a nascondersi e quando questi ne individuava uno, doveva arrivare prima del rivale al barattolo per farlo prigioniero.

Se invece arrivava prima l’altro, dava il calcio al barattolo, liberava tutti i precedenti prigionieri e tutto ricominciava.

A differenza del “nascondino”, “a rametta” pretendeva qualche scaltrezza in più.

Quello che doveva andare a raccoglierla lontano aveva due possibilità: correre velocemente e tornare subito alla base per cercare di individuare i nascondigli degli altri o sbirciare dove si nascondessero i compagni per individuarli successivamente.

Un altro gioco di abilità era quello con un bastone lungo ed uno corto, appunto la “mazza” ed il “pizzo”.  Quello corto doveva essere appuntito alle due estremità ed il lungo solo ad una per permettere al giocatore di colpire leggermente il “pizzo” con la “mazza”, farlo alzare da terra ed immediatamente colpirlo e mandarlo il più lontano possibile.

Era un gioco di abilità ed anche di strategia.

Il “tocco” (la morra) decideva il sorteggio.

Dopo tre colpi, se si superava una misura prestabilita, il vincitore poteva esprimersi indicando quante “sane” (la misura della “mazza”) ci fossero tra la partenza ed il punto di arrivo dei suoi lanci.

Se la sua indicazione era ritenuta idonea dal perdente, quest’ultimo doveva caricarsi sulle spalle il vincente e portarlo al punto di partenza tra gli sberleffi di tutti gli altri.

Il preside Mario Rizzo nel suo libro “Rossano, ricordi d’altri tempi”, parlava anch’egli di questo gioco. Concludeva la sua spiegazione in questo modo:«il vinto doveva “carriar ‘u zuddur” al vincitore, doveva cioè trasportarlo a cavalluccio sulle spalle per il percorso stabilito».

C’era anche il periodo in cui volevamo emulare Robin Hood. Le nostre frecce ed archi si costruivano con i ferri di vecchi ombrelli. Per appuntire quei vecchi ferri d’ombrello bisognava strofinarli fortemente sui pavimenti di cemento.

Il più abile tra di noi con un altro ferro e con lo spago ci costruiva l’arco.

Le porte dei vecchi magazzini, che magari si aprivano raramente, fungevano da bersaglio. Si disegnavano dei cerchi concentrici ed in essi il punteggio da assegnare.

Ogni vecchia porta del vicinato diventava piena di buchi.

C’erano poi i giochi che pretendevano l’acquisto seppur minimo di uno strumento. La trottola (carrocciolo), la cerbottana (coppi), figurine (giocatori) ed ognuno di essi pretendeva scaltrezza e furbizia; al giorno d’oggi queste doti sono ancora dei ragazzi che giocano col telefonino?


grazie a Francesco Sapia per la foto in copertina


 

Gino Campana
Autore: Gino Campana

Ex sindacalista, giornalista, saggista e patrocinatore culturale. Nel 2006 viene eletto segretario generale regionale del Sindacato UIL che rappresenta i lavoratori Elettrici, della chimica, i gasisti, acquedottisti e tessili ed ha fatto parte dell’esecutivo nazionale. È stato presidente dell’ARCA territoriale, l’Associazione Culturale e sportiva dei lavoratori elettrici, vice presidente di quella regionale e membro dell’esecutivo nazionale. La sua carriera giornalistica inizia sin da ragazzo, dal giornalino parrocchiale: successivamente ha scritto per la Provincia Cosentina e per il periodico locale La Voce. Ha curato, inoltre, servizi di approfondimento e di carattere sociale per l’emittente locale Tele A 57 e ad oggi fa parte del Circolo della Stampa Pollino Sibaritide