Quando si aspettava Pasqua per “pupuliddi e cudduri”… c’era una volta “U’ pascun”
Nei ricordi di Albino Nola la lunga attesa delle feste pasquali nella Quaresima di penitenza che apriva le porte ad un periodo di tradizioni e usanze che ancora oggi resistono
di Albino Nola
Sono sempre stato attratto, sin da bambino, dai riti, dalle tradizioni, dalle funzioni religiose e da tutto ciò che era legato al periodo pasquale. È un periodo particolare in cui la gente per devozione ha un comportamento diverso rispetto agli altri giorni dell’anno. Ricordo, per esempio, che tante persone, specialmente anziani, a Rossano, durante la Quaresima, tutti i venerdì, per un voto fatto o per fede, restavano completamente digiune, bevendo solo un po' d’acqua; alcuni rinunciavano, per tutti i quaranta giorni, a mangiare dolci o si privavano di qualcosa e, ovviamente, ogni venerdì di quaresima c'era l'astensione dal mangiare carne. Poi arrivava la Settimana Santa: tradizioni, usanze e funzioni religiose, anno dopo anno, venivano rispettate e messe in pratica.
Legate alla Pasqua, ovviamente, ci sono anche le tradizioni “laiche” per lo più culinarie. Oggi, se il panettone è il simbolo del Natale, per Pasqua il riferimento è l’uovo di Pasqua e/o la colomba, ma quando ero piccolo, quello che non poteva mancare in ogni casa era “u' pupulidd” e “u' cuddur”.
Legato al pupulidd ho un ricordo bellissimo: quando andavo all’asilo, il giorno in cui si prendevano le vacanze di Pasqua, su un tavolo c’erano tanti pupuliddi che la direttrice dava ad ogni bambino che frequentava l’asilo e mi è rimasta impressa quella montagna di pupuliddi sul tavolo.
U’ pupulidd è generalmente salato anche se alcuni lo fanno dolce. È fatto a forma di “pupo” (un gioco per bambini). Da qui il nome, con un uovo sodo messo nella parte raffigurante il volto. Ad ogni bambino veniva dato u’ pupulidd, mentre per i grandi c’era “u’ cuddur”.
Con lo stesso impasto venivano creati anche pupuliddi con forme diverse, per i maschietti a forma di pesce, per le femminucce a forma di borsetta. U’ cuddur, invece, era destinato ai grandi: di forma circolare, anch’esso salato e di varie dimensioni. Più era grande, più uova venivano messe sopra. U’ cuddur veniva “annumat” cioè veniva dato al singolo componente della famiglia, per esempio il più grande (addirittura con 9 uova) era destinato generalmente al nonno che era il più anziano della famiglia, poi al papà con 7 uova e poi agli altri con 5 o 3 uova (comunque le uova sempre in numero dispari). Sia i pupuliddi che i cudduri venivano fatti in casa, ma siccome non c’era la possibilità di cuocerli nel forno di casa, anche per le grandi quantità che si producevano, si prendevano accordi con i fornai che si rendevano disponibili a infornarli.
Allora si vedevano i ragazzi che lavoravano al forno con delle tavole piene di pupuliddi e cudduri coperti con delle tovaglie che prendevano il tutto sulle spalle e le portavano al forno e c’era un via vai indescrivibile di questi ragazzi con le tavole sulle spalle che facevano la spola dalle case al forno. Sui cudduri generalmente si metteva un santino e la palma benedetta come forma augurale e di devozione. Lascio alla vostra immaginazione il profumo che c’era per le strade quando si riportavano indietro a cottura ultimata.
Un’ultima cosa su cudduri e pupuliddi: anche se si cuocevano prima di Pasqua (generalmente il mercoledì e il giovedì i fornai davano la disponibilità) non si mangiavano per nessun motivo prima di Pasqua, o meglio, prima che “sparassa ra Gloria”.
C'era una volta “U’ pascun”
Ovviamente, inutile dirlo, le feste pasquali si concludevano il Lunedì dell’Angelo, per tutti “u jiurn e ru pascun”. Adesso si organizza nei ristoranti, si va a fare una gita, perché si va a pranzo o a cena fuori quando si vuole, quindi non c’è più l’attesa di una ricorrenza per organizzare pranzi e cene. Una volta, invece, “u pascun” era un giorno particolare dedicato al pranzo fuori casa.
Le famiglie si organizzavano giorni prima e si andava in comitive piuttosto numerose, per cui le donne si mettevano ai fornelli subito dopo il pranzo pasquale. Già al mattino presto del lunedì carovane di macchine partivano da casa esclusivamente verso la montagna, perché la pasquetta doveva farsi all’aria aperta e in montagna. Ricordo le colonne di macchine che salivano dal Traforo e prima si partiva, meglio si poteva scegliere il posto dove fermarsi. Arrivati sul posto, si metteva una tovaglia sul prato e dalle macchine si toglieva fuori… un mondo!
Il cibo veniva messo nelle cassette per non far traboccare sugo ed olio presenti in ogni pietanza e da ogni cassetta faceva capolino più di un fiasco di vino. Man mano che passavano le ore, la montagna si riempiva di gente, meta preferita il Rinacchio: già prima dell’ora di pranzo si incominciava con un aperitivo, poi tutti seduti per terra a mangiare cercando di finire tutto quel ben di Dio che con tutta la buona volontà non si riusciva a finire (con la scusa si continuava con la cena).
Subito dopo pranzo con le radio accese e ad alto volume, tutti a cantare e a ballare. I bambini a scorrazzare nei prati e a giocare a pallone. Alcuni, complice anche il vino, si mettevano all’ombra a fare il sonnellino. All’imbrunire, si raccoglieva tutto e si ritornava a casa. I ragazzi un po' più grandicelli, invece, si organizzavano fra di loro e non andavano con le famiglie.
Ricordo i primi “pascun” fatti con gli amici. Si saliva a piedi in montagna sfruttando le scorciatoie e arrivati sul posto stabilito ci mettevamo subito a giocare a pallone. Ognuno portava qualcosa da mangiare da casa, messo in una busta di plastica e non mancava certamente il mezzo pupulidd rimasto con l’uovo sodo e un pezzo di cuddur. Ecco, questo era il modo di vivere il periodo pasquale un po' di anni fa, con le sue tradizioni, i suoi riti, che per certi versi è uguale ad oggi ma forse con spirito diverso.
Con l’occasione auguro a tutti Buona Pasqua.
Ricetta dei pupuliddi e dei cudduri:
1 kg di farina
4 bicchieri d’acqua
2 bicchieri d’olio
150 gr di lievito madre
1 cucchiaio di semi di anice
2 cucchiaini di sale
Impastare la sera e lasciare lievitare per tutta la notte. Al mattino impastare nuovamente per un po’ e dare la forma desiderata. Lasciare lievitare. Infornare.
Storie d'Altri tempi è un progetto dell'Eco dello Ionio e dell'associazione Rossano Purpurea, nato per costruire un racconto corale di memorie cittadine tra Corigliano e Rossano. I contenuti sono frutto di un patrimonio orale di ricordi, o di ricerche storico- antropologiche, per lo più inedite, che gli autori hanno accettato di condividere con noi. Una narrazione unica, antica e nuova allo stesso tempo, della nostra identità.