di LUCA LATELLA Sessanta milioni di euro. In un solo anno. Ecco quanto costa esportare cultura e formazione all’area urbana. Questa, insomma, la cifra – enorme – regalata alle economie di altre regioni per investimenti che non avranno alcun ritorno economico, sociale ed anche culturale. Perché se è vero com’è vero che i nostri studenti partono per formarsi e studiare nelle università di centro e nord Italia, per come conferma l’Istat, la maggior parte di loro non farà più ritorno in patria. Colpa della crisi, certo, perché non c’è lavoro in realtà ben più ricche di opportunità, colpa del sogno americano o europeo che sia. Studi sempre più frequenti stanno dimostrando, infatti, che sono sempre di più i giovani emigranti dopo aver concluso il ciclo di studi, semplicemente perché l’Italia non è un Paese per giovani, giacché un laureato su quattro emigra verso altri Paesi. L’Istituto di statistica evidenzia un fattore fondamentali che avvalora la tesi:
il 7,2 % del Prodotto Interno Lordo calabrese viene investito per istruzione e formazione (la Calabria è la prima regione per consumi finali relativi a formazione e istruzione, poi seguono Sicilia, Campania, Basilicata e Puglia). Tradotto in soldoni, sono decine i milioni di euro che da qui – come da tante altre realtà calabresi – partono per rimpinguare Pil altrui ed essere spesi nelle varie università italiane fra affitti (ben che vada mutui), e mantenimento del costo della vita, quindi, vitto, trasporti, tempo libero.
Una vera emorragia di risorse, dunque, che la Calabria dilapida. Se non per rare eccezioni. Perché sui 50 mila giovani calabresi iscritti all’università nel 2014, quasi due terzi (stima per difetto) studiano fuori regione. Se moltiplichiamo questi numeri per la spesa mensile necessaria a vivere fuori casa, ecco giungere a cifre stratosferiche. Che per la sola area urbana, quindi Corigliano e Rossano, ammontano, come accennato, a circa 60 milioni di euro. Cervelli in fuga, dunque? La risposta è spesso affermativa se non per quei casi – sempre più sporadici – in cui giovani laureati, formati, tornano per mettere in pratica le esperienze maturate, magari al servizio dell’azienda di famiglia, nel ramo agricolo alimentare, per esempio. Certo che a guardare quella cifra, c’è da rimanere basiti.
Se consideriamo che sono poco più di 5000 gli studenti che partono da quello che forse sarà il comune unico, verso le università di altre regioni, e moltiplichiamo la cifra media spesa per il sostentamento fuori sede (circa 7-800 euro spesi per vitto, alloggio, trasporti, tempo libero più le due rate per le tasse universitarie, per un totale di circa 1000 euro) ecco emergere quei 60 milioni annui che nell’arco di un quinquennio – durata degli studi – rappresenta l’esatto algoritmo del mancato sviluppo di queste terre.§ Una enormità, insomma, che ci impoverisce ogni anno sempre di più e che fa certamente riflettere: è necessario mantenere migliaia di iscritti negli atenei che non giungono al termine degli studi? Perché non investire sulla propria terra, in periodi di crisi? Provocazioni, certo, ma fino a che punto?
AREA URBANA –
Quando i nonni erano una risorsa. In tutti i sensi. Umanamente e, perché no, economicamente. Erano, insomma, una garanzia salvadanaio al bisogno, come gli studenti degli ultimi decenni potrebbero dimostrare. Fra questi, alzi la mano chi non ha mai ricevuto qualche “regalino” dai nonni, magari utile a vivere fuori? Gli effetti di 40 anni di lavoro in una pensione – che le prossime generazioni non potranno più permettersi – utile, spesso e volentieri, al mantenimento dei nipoti nelle università fuori sede. Con la crisi sempre più stringente, la forbice fra i costi della vita e gli stipendi dei genitori, oggi uno studente universitario non può permettersi più certi lussi.
Ecco intervenire i nonni come fossero “borse di studio”, quindi. Con tutta probabilità saranno queste le ultime ondate di studenti a poter contare su un supporto economico del genere. Con un pizzico di malinconia, certo, ma anche di preoccupazione per le generazioni a venire. Cosa non si farebbe, quindi, per stare nei costi o nel budget che una famiglia può “stanziare” per mantenere il o i figli fuori.
E cosa non si fa oggi per risparmiare, ma col bluff. Nonni, quindi, ma anche i celeberrimi “pacchi”, magari spediti con il tramite di un amico oppure un parente, o chissà con i pullman di linea. Quelli sì che sono pacchi salvavita: ogni ben di dio e leccornia, provviste di ogni genere racchiusi, spesso, in uno scatolone di cartone che contiene sapori, profumi, l’affetto di casa e che fa respirare il portamonete di chi vive fuori, ma non di chi lo invia.
Ecco il bluff. Che siano, però, conserve fatte in casa come tradizione quasi impone o beni di prima necessità acquistati, il pacco ha un costo (fra 50 e 100 euro) e – per certi versi –
una funzione negativa. Quella di concedere poca autonomia ai figli mantenuti fuori che anche per via di quel pacco, non riescono a quantificare il costo della vita. Fra le calabresità ed il retaggio del Dopoguerra, insomma, ci troviamo di fronte a due modi di fare tipicamente meridionali, per vivere meglio in un centro o in un nord Italia molto più in crisi di noi e con un prezzo della vita certamente superiore al nostro, seppur assistiti da quei flussi economici che partono da qui per non fare più ritorno.