I "nivureddi" di Longobucco, la storia (quasi inedita) degli etiopi confinati dal fascismo nella Sila Greca
Tra il 1937 ed il 1943 un gruppo di cittadini del Paese africano, appartenente al ceto dirigente, venne confinato a Longobucco: il calore della gente della Valle del Trionto mitigò quel lungo periodo di lontananza dalla terra d'origine
LONGOBUCCO - La storia che vogliamo raccontarvi oggi riguarda la campagna d’Africa e il suo legame con Longobucco, che divenne luogo di confino per molti deportati etiopi. Grazie alla consulenza storica, ai documenti e agli articoli forniti da Giuseppe Ferraro siamo riusciti a ricostruire, seppur parzialmente, uno spaccato di storia della nostra terra. Un evento di microstoria che ribalta le dinamiche della storia fatta dalle classi dominanti.
Febbraio 1937, l’Italia è impegnata nelle campagne coloniali in Africa. Un anno prima Mussolini aveva dichiarato la totale sottomissione dell’Etiopia e sebbene molti territori siano ancora controllati dalla popolazione locale ostile al regime, le classi dirigenti italiana ed etiope collaborano alla guida del paese africano.
Ma un giorno, nel corso di una cerimonia, alla presenza di dignitari fascisti ed etiopi, esplodono alcuni ordigni che feriscono i presenti, tra cui il Viceré Rodolfo Graziani. La reazione del regime non tardò ad arrivare.
La dura repressione che seguì, in risposta all’accaduto, nei confronti del vecchio ceto dirigente e della popolazione civile provocò numerose vittime. Alcuni superstiti vennero confinati in Somalia mentre altri notabili e civili ritenuti «pericolosi e irriducibili» vennero mandati in Italia e confinati in varie zone della penisola, molti in Calabria.
Per la sua posizione geografica, per la conformazione morfologica del territorio (ricca di zone internate) e per la mancanza di infrastrutture la nostra regione pareva al regime un luogo ideale per confinare i dissidenti. Agli etiopi, infatti, toccò proprio la nostra terra e nello specifico Longobucco (poi per brevi periodi vennero ospitati anche a Bocchigliero e Rossano).
La permanenza di questi confinati etiopi nel centro silano durò sei anni, dal 1937 al 1943. Il gruppo giunto a Longobucco apparteneva al ceto dirigente amhara di religione ortodossa-copta. Tra di loro si contavano direttori generali di ministeri, vice governatori e personalità di rilievo come Habté Micael Fassica (ex Ministro dei Lavori Pubblici), Ubiè Mangascià (ex Ambasciatore etiopico a Roma) e dal 4 dicembre 1942 ras Immirù Hailè Sellassiè, uno dei personaggi più carismatici e importanti della resistenza etiopica.
La loro presenza era così numerosa e attiva da catturare l’attenzione degli abitanti che iniziarono a chiamarli "i nivureddi" e con i quali intrattennero «equilibrati rapporti di convivenza».
Per garantire loro qualche concessione e un regime di confinamento meno duro, la Chiesa svolse una serie di attività diplomatiche presso le autorità fasciste (anche se non assunse mai una posizione ostile al regime) che gli consentirono una vita piuttosto tranquilla.
Nei documenti dell’Archivio Storico Ministero Affari Esteri, Ministero Africa Italiana, relativi ai confinati etiopi in Calabria, sono custodite infatti alcune lettere da parte della Segreteria di Stato vaticana o di ecclesiastici nei confronti degli internati. In una, ad esempio, viene riporta la loro condotta: «Il Signor Maresciallo mi ha confermato che sono disciplinati, rispettosi, non si lamentano e non danno alcun motivo di lamenti. Soltanto il Degiazmacc Mangascià Ubiè, avendo lasciato dubbio di non essersi comportato riguardosamente con donne del paese, fu allontanato ed isolato in altra vicina località, con l’autorizzazione del R. Ministero».
Le successive leggi razziali, però, inasprirono le condizioni dei confinati che vennero obbligati dal regime a spostamenti controllati. Il Duce vietò qualunque rapporto con la popolazione locale; per fortuna le realtà locali seppero mitigare i proclami cercando di attenuare la durezza dei provvedimenti. Le amicizie nate e le manifestazioni di affetto ricevute negli anni garantirono loro una convivenza serena con gli abitanti del posto.
Gli unici disagi, si legge nei testi, «derivavano dal clima freddo, che causava numerose malattie; dalla diversità del regime alimentare e da un tenore di vita molto spartano causato dai mancati pagamenti da parte del Ministero»
Finalmente, «la liberazione della Calabria da parte degli angloamericani nel settembre del 1943 riconsegnò agli internati la libertà, finiva un lungo periodo di prigionia, sofferenza e solitudine, alleviate dagli etiopi (nonostante i divieti e le diversità culturali) e dalla partecipazione di questi alla vita sociale del paese (recite, lotterie, accademie musicali, funzioni religiose), coltivando amicizie e anche qualche storia di amore di “confine”».