Il Coronavirus ci sta ricordando quanto siamo piccoli e quanto le tradizioni religiose, per quanto possiamo essere o no credenti, sono tutto ciò che ci ricordano l'appartenenza.
Risucchiati dalla paura, dagli arresti domiciliari in cui questo virus ci ha condannato, sballottati dalla paura dell’altro e del contatto, ci siamo risvegliati, oggi, nella mattina del 19 marzo: festa dei papà e di San Giuseppe. Autentico padre e marito della nostra Achiropita ha sempre avuto un’aura particolare per l’area bizantina di Corigliano Rossano. Il virus, oltre che la libertà, ci chiede di sacrificare anche il senso della comunità che questo giorno si porta con sé. Quest’anno, anche per preservare i tanti nonni che sono anche papà - e chissà quanti si chiamano Giuseppe -, si resta a casa e si rispettano le regole.
“U mmit e San Giuseppe” da offrire ai vicini, quest’anno poco importante se salterà, il prossimo anno
i tagghjarin e cicir cu baccalà saranno più buoni perché avranno il sapore del sacrificio e dell’attesa, valori che abbiamo immolato sugli altari del consumismo, del benessere ostentato e del tutto e subito. Ciò che non ti uccide ti rende più forte, proprio come quel carpentiere che scappò in Egitto, trapassò le avversità e conobbe con Maria l’isolamento per difendere il bambino che cambiò il mondo. San Giuseppe il santo dei moribondi e dei lavoratori, oggi due facce della stessa medaglie, messi all’angolo dallo stesso virus. Ma dopo aver attraversato i deserti e passato il Mar Rosso, per tutti c’è Nazareth: c’è casa.