di MATTEO LAURIA In sei salgono sulle ciminiere della
centrale termoelettrica Enel: sono sposati, hanno moglie e figli da sostenere. La fascia di età oscilla dai 40 ai 60 anni. Un dato quest’ultimo da non sottovalutare, se non altro per il fatto che diventa difficile trovare lavoro a quell’età ovunque, figuriamoci da queste parti. L’esercizio del diritto di critica ci impone alcune riflessioni come base di partenza di un ragionamento che ci vede tutti coinvolti e responsabili, ai vari livelli. Oggi siamo arrivati al capolinea: l’Enel dismette gli appalti al 31 dicembre 2015, i dirigenti lo avevano annunciato candidamente nel giugno scorso durante una riunione prefettizia. Tutti sapevano dell’attuale situazione. Come si è affrontato il problema? Con il silenzio. Quando si fa finta di non vedere e di non sentire vi è un momento in cui si arriva a un punto di non ritorno. E oggi ci siamo. Sono trascorsi ben 15 anni, se non di più, dalla prima
proposta “Scaroni” ( ex Amministratore delegato Enel) di riconversione della centrale a carbone. Circa 8 di anni da una seconda proposta da parte di Enel di una riconversione a percentuale ridotta di carbone. Erano gli anni in cui al colosso interessava questo tipo di investimento perché il “propellente” aveva costi vantaggiosi. Dall’altra: benefici per il comune, posti di lavoro, indotto. Sia nell’uno sia nell’altro caso insorge il popolo del “no”: una miriade di comitati, partiti che si schierano, movimenti che lanciano proposte ecocompatibili. Insomma, parlare di riconversione era diventato un modo per taluni di ritagliarsi uno spazio elettorale, per talaltri incassare un banale briciolo di visibilità o ancora per interessi personali. Una pioggia di proposte contrastanti che alla fine non ha portato a nulla. Vince la presunzione, la stessa che induce ognuno dei soggetti proponenti a ritenere infallibile il proprio progetto, per cui non si è disposti a far un minimo di passo indietro. Si obietterà: non si può barattare il lavoro con la salute. D’accordo, ma non bastano 15 anni per capire che occorre trovare una soluzione unitaria? E’ come se la lezione della storia non fosse stata recepita affatto in questo territorio. Si va avanti e si ripetono gli errori i cui effetti, ovviamente, ricadono sull’anello più debole, ossia, i lavoratori oggi senza un futuro.La democrazia vuole che chi è chiamato a trovare soluzioni sia l’eletto. È questo il punto di partenza dal quale partire. Nel bene o nel male chi deve assumersi la responsabilità delle scelte è l’amministrazione comunale pro-tempore. L’incertezza, il dire e non dire, la mancanza di determinazione, produce solo danni. Bene il dialogo, bene la concertazione, bene il confronto, ma poi bisogna decidere. Ricordiamo la battaglia dell’
ex sindaco Franco Filareto contro il carbone, una strategia vincente per le elezioni nel 2006. E poi? Quella amministrazione rispetto al tema “Enel” cosa fu capace di fare? Sul fronte opposto idem, ma forse il centrodestra ha pagato lo scotto delle mancate scelte: i timori di risultare impopolare o la paura di mettersi contro il territorio hanno inciso e non poco. L’arrivo dell’ex amministratore delegato Scaroni e qualche sopralluogo a Manfredonia sono la dimostrazione che la coalizione avrebbe accarezzato un’idea di riconversione ma poi, con la scusa del “conoscere per pronunciarsi”, la discussione si è puntualmente arenata. Oggi a quei sei lavoratori dovrebbe dare una risposta quel popolo del “no”, la maggior parte del quale ragiona con la “pancia piena”. E’ da irresponsabili giocare con la vita delle persone, avanzare molteplici proposte nella consapevolezza che le stesse annullano un percorso. Dal popolo del “no” manca da sempre una proposta unitaria, ognuno dice la propria, ma senza uno studio di fattibilità che osservi e tenga conto della realtà. Quel popolo del “no” che sa solo opporsi, per poi sparire nella vita quotidiana. Sono gli
ambientalisti o pseudo tali che insorgono nei momenti topici di un dibattito che non richiede molto coraggio (come l’Enel); ma si sottraggono o tacciono sulle questioni scottanti come al tempo fu l’abusivismo edilizio demaniale. Bravi solo a elevare i vessilli dello sviluppo ecocompatibile. Quel braccio si alza però solo quando si riduce la capacità di rischio o di sovraesposizione. L’importante è non mettersi contro chi può reagire e far male. Quel che amareggia è che non si può essere ambientalisti di comodo perché chi paga, alla fine, è chi non ha protezioni. Prevale la cultura dell’orticello a scapito dell’interesse generale. La mobilitazione (sostenuta da imprenditori turistici, produttori agricoli, ed altri) contro il cementificio, il rigassificatore, il carbone, il termovalorizzatore, etc. etc. ha avuto l’effetto di bloccare ogni investimento in nome della vocazione territoriale (turismo e agricoltura). Ma queste due voci riescono a fornire risposte esaustive? Non risulta. Non a caso l’emigrazione cresce a dismisura, e ci si avvia alla trasformazione di un comprensorio destinato alla “terza età”.