Nugӕ!
Leggerezza e piccoli frammenti per un viaggio a doppia corsia
È il 1985 quando Calvino scrive cinque delle sei, previste, Lezioni americane che era stato chiamato a tenere nella prestigiosa Università di Harvard, incentrate sull’impegnativo scopo di avanzare Sei proposte per il nuovo millennio. Quelle lezioni, mai pronunciate come tali per la sopravvenuta e prematura morte dell’eclettico e sperimentalista romanziere ligure, saranno pubblicate postume in forma di libro nel 1988 e da allora rappresentano un punto di non ritorno nella storia della letteratura e del pensiero contemporaneo; uno di quei classici per spiegare l’essenza dei quali Calvino stesso, anni prima, ha scritto un saggio, in cui sostiene, tra le altre definizioni, che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. E mai affermazione fu più meritata!
Nella prima delle sue lezioni, l’intellettuale novecentesco, che avvertiva pressante su di sé il peso del dover rappresentare la realtà e le sue problematiche sociali, ma viveva anche la scrittura come libertà e fuga, affronta il tema della leggerezza, intesa non certo nel senso di frivolezza, né tanto meno di approssimazione, ma piuttosto come leggerezza della pensosità. Da qui l’invito: Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.
Quanti macigni sul nostro cuore ogni giorno! Quelli delle nostre vite individuali, quelli della collettività quotidianamente vicina a noi, e quelli di un mondo lontano, ma che siamo chiamati a sentire prossimo, non tanto dalla globalizzazione, ma dalla filantropia, laica o cristiana che sia.
Recentemente mi sono di nuovo imbattuta, come in una di quelle casualità che si percepiscono fortunate, in Song of the open road: un inno alla vita scritto dal poeta americano Walt Whitman; una sferzata di energia, di fiducia e, allo stesso tempo, un monito: A piedi e a cuor leggero me ne vado libero per la strada. Sano, aperto, il mondo dinanzi a me! Leggero, appunto, come dirà Italo; lontano da lamenti e vittimismi, aperto alla gioia e al coraggio di un carpe diem di lunga eredità. Ma tanto più forti sono gli appelli alla felicità e alla leggerezza, quanto più grave si sente il peso del vivere. Così in Catullo, così in Orazio, così nello statunitense. Così negli uomini.
Io mi carico dei miei dolci vecchi fardelli, aggiunge, infatti, Whitman, spiegando che li porta con sé ovunque lui vada, perché lo giuro, mi è impossibile liberarmi di loro, sono pieno di loro. I pesi del nostro io, le sofferenze, i disagi, le ingiustizie, le povertà, la precarietà, la fragilità; quella del vivere, innanzitutto. Tutto passa e passo anch’io e nulla può essere fermato e non c’è alcuna cosa o persona, aggiunge che non mi stia a cuore.
Catullo, il poeta della soggettività emotiva, del più passionale invito alla sensualità dell’amore, è tutt’altro che frivolo, materialista e superficiale. Come certo non lo fu - checché a volte l’aggettivo derivatone lasci pensare!- la filosofia epicurea alla quale si ispirarono il poeta veronese e tanti altri. Basti ricordare che, come nel passo americano sopra citato, così nel carme del vivamus atque amemus catulliano, se si scende di appena qualche verso, il tema sprofonda nel baratro della paura della morte, di un vivere troppo labile e fugace; ed è proprio (se non solo) per esorcizzare quella paura che si rinforza la passione dei baci, unico antidoto, esile, apparentemente spavaldo, ma in realtà timoroso, per attingere un frammento di infinito.
Nugae Catullo chiama questi suoi carmi brevi, di argomento vario, leggeri, appunto, nel senso calviniano, potremmo forse azzardare a dire. Il termine latino, che l’autore stesso conia (come, per inciso, anche la parola bacio, da lui in avanti entrata nel dizionario amoroso al posto di osculum), significa, nell’accezione primaria, inezie, cose da nulla, sciocchezze. Sicuramente l’espressione può inserirsi in un vezzo frequente nei letterati, che è quello della falsa modestia. Di certo la stessa che porta, secoli dopo, Francesco Petrarca a definire nugae, appunto, anche le sue poesie in volgare italiano (lontane dalle impegnative opere in latino da cui si aspettava la gloria), che chiama anche frammenti, per la loro brevità e, forse, non solo.
Mettiamo da parte, in questa sede, ogni scontata considerazione sul monumentale valore delle poesie e degli autori tirati in ballo; fermiamoci, invece, sulle parole in sé. Il termine nugae, insomma, indica degli scritti brevi, di argomento vario, possibilmente leggero; frammenti di riflessioni, cose da poco, senza pretese, se non, forse, quella di esprimere una soggettività e uno sguardo sulla vita. Una sorta di divertissement letterario, verrebbe da dire, dunque, attingendo ad altro patrimonio linguistico.
Nugae saranno per me, da oggi, su queste pagine virtuali de L’eco, dei piccoli viaggi nella letteratura, o nell’arte e nella cultura in genere; frammenti di riflessioni affrontate senza ansia -tanto meno pretesa- di esaustività e approfondimenti, ma solo per ciò che un passo, una canzone, un film, un quadro o, che so, un discorso di tanti anni fa, spesso suggeriscono al presente, o, viceversa, che le nostre storie quotidiane ricordano di essi, secondo quella ciclicità così cara a Giambattista Vico. Un viaggio a doppia corsia, per il quale mentirei se dicessi che mi sento pronta, ma che mi intriga da tanto, come l’atto della scrittura in sé che vivo, innanzitutto, come ricerca personale.
E’ stato, in realtà, quindi, per me stessa, che ho richiamato al cuore il coraggio, la consapevolezza e l’energia che mi trasmette l’open road di Whitman; per me ho cercato nei significati dell’espressione nugae (non certo, lo ripeto, nell’imbarazzante grandezza degli autori) il conforto di poter affrontare cose piccole, frammentarie, anche da poco, se volete, ma solo ispirate da quella che personalmente vivo come bellezza e che mi piace condividere. Ed è sempre per me che ho guardato, ancora una volta -come ad una pagina che non smetterà mai di dirmi ciò di cui ho bisogno- alla lezione di Calvino sulla leggerezza; una leggerezza che aspira a quello slancio lieve, agile e arioso espresso nel salto con cui il Guido Cavalcanti della novella di Boccaccio si libera da ogni fastidioso impaccio, per primo quello della rumorosa frivolezza.
A L’eco dello Jonio un grazie anticipato.
Quel che verrà non so, ma credo che mi divertirò. E questo mi sembra un buon inizio; vero, Italo?
Foto in copertina: Marc Chagall, La mucca con l’ombrello, 1946, olio su tela, New York Museum of art.