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NUGAE - Portare alla luce se stessi

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Pensava di non essere romantico e invece lo era nell’anima, di quel Romanticismo oltre confini, imbevuto di freddo, malinconia e, soprattutto, di quella sehnsucht che fu desiderio senza limiti e sete inesauribile di assoluto. Di infinito.

Se nella salottiera polemica tra classici e romantici Leopardi scrisse contro il Romanticismo fu, tra le altre ragioni, perché il nostro movimento italiano fu animato da una – non del tutto chiara e coerente in realtà -esigenza di modernità; esso, molto più che indagare i notturni e le inquietudini del vivere, come fu dei tedeschi e degli inglesi, fu invece fratello, ritardatario - come sempre!-, dell’Illuminismo francese e in tutto complementare (se non anche necessario) al Risorgimento. Ad educare il popolo si mosse, infatti, la penna del vate milanese che volle la letteratura utile, vera e interessante, per orientare la società verso valori forti e quella tanto attesa realizzazione di indipendenza e libertà da troppi secoli sospirate.

In quegli stessi anni in cui si andavano preparando i moti costituzionali indipendisti del ’20 –’21, che il Manzoni accompagnava col ritmo marziale di decasillabi infiammati di patriottici accenti – o compagni sul letto di morte,/ o fratelli sul libero suol - Giacomo, appena maggiorenne, bisognoso di libertà e vita, tentava la fuga disperata dal palazzo paterno e dalle proprie orribili malinconie, in cerca di un se stesso che sentiva grande e desiderava portare alla luce.

Quanta ragione aveva nella sua sofferta ricerca!

Non è forse, ci ricorderà nel secolo successivo Erich Fromm, il compito principale nella vita di ognuno di noi portare alla luce noi stessi?

Parto difficile, complesso, non sempre fortunato, quasi mai senza dolori connessi. Eppure, uomo o donna, ragazzo o adulto, ciascuno di noi dovrebbe come prima cosa sentirsi chiamato a partorire se stesso, a mettersi in ascolto delle proprie personali avventure dell’animo per riuscire in questo processo autogenerativo.

Se la parabola di vita, poetica e pensiero del poeta filosofo recanatese si impone ancora oggi, a distanza di secoli, con tanta forza; se è capace, sempre (a patto -certo- che non venga anche Giacomo stritolato in sterili nozionismi asettici), di scuotere gli animi di innumerevoli ragazzi, non credo sia per la sua immensa mole di sapienza, né solo per la bellezza indiscussa della sua parola poetica, pur unica per intensità e capacità evocativa. Quella che arriva è la voce di un uomo all’inesausta ricerca della propria leggenda personale, estesa, però, ad una condizione di universalità che parli di ogni uomo, di ogni tempo e luogo.

Ed io che sono?

Il film che più ho amato di Gabriele Muccino è quello che nel 2006 venne incoronato da numerosi oscar, è stato La ricerca della felicità.

Ovviamente, trama e contesto non hanno nulla a che vedere col nostro autore, eppure il titolo è proprio quello sotto cui scriverei la sua storia personale e poetica: una perpetua e strenua ricerca della felicità.

Credo non si dia spesso sufficiente risalto a questo aspetto, ma Leopardi fu in tutto, sempre, mosso da questa quête, con esiti ben noti su cui non ha senso mi soffermi. Ma sono alcuni snodi del suo viaggio quelli che più mi appassionano.

Tutta la sua impalcatura concettuale e psicologica ha alla base un sillogismo: tutti gli uomini aspirano alla felicità; la felicità consiste in ciò che ci dà piacere; ogni uomo è alla ricerca del piacere.

“Il piacere”, non un piacere o più che siano. Ossia ogni uomo ha necessità di attingere al piacere assoluto, sciolto da ogni contingenza frammentaria. Ma come si fa? Dove si trova? I limiti insiti in noi uomini ci mettono sempre di fronte a singole provvisorie icone di piacere che appagano momentaneamente i nostri sensi, ma in tutto incapaci di soddisfare quella sete inestinguibile di assoluto che vive in noi. Siamo, appunto, a quella sehnsucht da cui abbiamo preso le mosse.

Un cavallo, dice Giacomo, una moto, una macchina -diremmo noi oggi-, per quanto fortemente desiderati e attesi come realizzazione concreta della nostra felicità, in realtà, molto presto, si riveleranno una delusione, incapaci di darci davvero la felicità. Una felicità che, forse - dirà in altra fase Leopardi- esiste solo in quell’attimo sospeso tra l’attesa e la consapevolezza di un pericolo scampato. Magari, in parte, nella dimensione del ricordo che tutto addolcisce. O una felicità che, per andare di nuovo a scomodare Fromm, consiste molto più nell’essere che nell’avere.

Infatti il recanatese, pur approdando ad un pensiero che non lascia spazio a quel Dio che, impostogli da un’educazione oppressiva, egli aveva escluso dai propri orizzonti ideologici; pur arrivando a negare ogni finalismo alla vita umana, in nome del materialismo e di un meccanismo onnivoro di autoconservazione dell’universo; tuttavia, a mio avviso, è il poeta più spirituale e intriso di valori etici e messaggi costruttivi per la nostra ricerca di noi stessi.

La sua personale ricerca del se stesso felice, la iscriverei in due momenti, due immagini che rispettivamente aprono e chiudono (se di chiusura si può mai parlare) il suo orizzonte esistenziale e ci possono dare una prospettiva.

Il primo è la sua esperienza, registrata in ineguagliabili versi, di un itinerario di ex-tasis (memore -azzardo- del trasumanar di Dante che sale al paradiso), di superamento di ogni limite personale che lo ha portato, per un attimo, ad uscire dal sé concreto, connotato da una condizione apparente di limite, per attingere a ciò che intorno ad ognuno di noi, sempre, vi è di sovrumano e immenso, raggiungendo l’esperienza dell’assoluto. Basta un attimo, basta sapere che c’è quell’oltre, basta intravvederlo l’infinito, proiettarsi oltre l’ostacolo, oltre i muri di un’esistenza grigia, e cullarsi, per un secondo, nella dolcezza di questo naufragio edenico, per dare a tutta la nostra vita una prospettiva completamente diversa. E lì, in quella luce, per un istante, ci può essere concesso di intravvedere l’immagine della nostra leggenda personale. A noi, poi, il viaggio.

Il secondo momento è dell’età matura, quando l’uomo ha in sé incamerato la consapevolezza piena del dolore, della fragilità, di una precarietà da cui possiamo farci bloccare o renderci liberi. Si tratta di trovare la chiave. Questa la sfida quotidiana.

Napoli, la malattia, il conforto di un’amicizia vera e una finestra. Di fronte a sé, formidabile monte, il Vesuvio sterminatore, sintesi perfetta del nostro esser sospesi, universalmente piccoli, pur illusi del contrario. Eppure anche qua, sul grigio lavico si affaccia un giallo colore di croco, e sull’odore di morte si spande il profumo della vita, della solidarietà, della resilienza, e delle piccole cose da cui ogni volta può rinascere, a saperla vedere, una possibilità nuova per l’agire umano verso quella, mai davvero sopita, ricerca della felicità. 

Alessandra Mazzei
Autore: Alessandra Mazzei

Diploma classico, laurea in Lettere classiche a La Sapienza, Master in Pedagogia, insegue una non facile conciliazione tra bios theoretikos e practikos, dimensione riflessiva e solitaria, e progettualità concreta e socialmente condivisa. Docente di Italiano e Latino, già Assessore alla Cultura e Turismo di Rossano, impegnata in diverse associazioni socio-culturali, ma, prima e più di ogni altra cosa, mamma, felice, di Chiara Stella, Gabriele e Sara Genise. Ha grande fiducia nelle capacità dei giovani, degli studenti, di quelli che poi restano e di quelli che vanno pensando un giorno di tornare. Spera di poter contribuire, insieme a loro e ad amici ottimisti, alla valorizzazione di questa terra di cui sente da sempre la forza delle radici, accanto al bisogno di paesaggi culturali ampi e aperti. Ama la scrittura, che vive, al pari dell’insegnamento, come itinerario di ricerca e crescita personale, da coltivare in forme individuali e collettive.