Una lunga lettera di vita e di governo
Risfogliando Memorie di Adriano, per parlare di fragilità, bellezza e cura del mondo
Mio caro Marco, inizia e prosegue così, sotto forma di lettera e dialogo con se stesso, informale, mai banale, dissacratore, ironico, destabilizzante a tratti, sorprendente sempre per profondità e analisi, universalità e unicità, sublime per scrittura, Memorie di Adriano, l’opera che consacrò la sua autrice, Marguerite Yourcenar, ad essere prima donna eletta nel ristrettissimo rango dell’«Académie Française».
Adriano è l’imperatore romano al cui nome e alla cui opera restano simbolicamente legati il Vallo, in Britannia, la Villa a Tivoli: segni di una convinta scelta di pace, il primo, e di cura della Bellezza, la seconda. Oggi entrambi siti Unesco!
Ma la voce narrante che con fluidità coinvolgente si racconta a noi nel testo novecentesco dell’autrice francese non è tanto, o non solo, quella della figura storica, del politico, dell’imperatore, ma dell’uomo di ogni tempo che, anima vagula blandula, si mette a nudo, alla ricerca di un senso o di un’accettazione, nel momento in cui, diagnosticata una malattia fatale, si trova a fare i conti con se stesso, la vita e le sue forme. I toni e le prospettive di indagine che assume, se non sono di tutti i tempi (ma forse sì) lo sono senz’altro dell’uomo moderno, di chi ogni giorno sposa il dubbio piuttosto che la verità, si riconosce e accetta nelle sue fragilità e (cito liberamente, qui e altrove, trasponendo in questo caso la prima persona originale in terza) si studia di ripercorrere la propria esistenza, per ravvisarvi un piano e di tanto in tanto, crede di riconoscere la fatalità in un incontro, in un presagio, salvo dover spesso constatare che vi sono troppe vie che non conducono in alcun luogo, troppe cifre che a sommarle non dànno alcun totale. E in questo disordine, percepisce la presenza di un individuo. Se stesso! Una natura formata di cultura e di istinto, immerso in una vita in cui affiorano qua e là i graniti dell’inevitabile; dappertutto le frane del caso.
Il Novecento, la psicanalisi, le teorie del relativismo e una serie di congiunture che misero globalmente in discussione l’uniformità e solidità del vero, portarono a definizione una consapevolezza che la penna sapiente di Marguerite presta ad uno degli imperatori più amati della storia. Non c’è pertanto da stupirsi se, per sua voce, ritroviamo un individuo che, scandagliando dentro la propria dimensione più intima, si riconosce appena nel ruolo agli occhi di tutti prioritario, quello dell’imperatore, e sente piuttosto convivere in sé personalità plurime. Regnavano in me di volta in volta personaggi diversi: l’ufficiale meticoloso, il malinconico sognatore, il cortigiano ignobile, il giovincello che sentenzia dall’alto su ogni questione con sicumera ridicola, il parlatore frivolo, il soldato.
Mi piace tantissimo che in questo avvicendarsi di figure e movimenti, Adriano assegni pari diritto d’asilo anche a quel personaggio vacuo, senza nome, senza posto nella storia, ma che è me stesso quanto tutti gli altri, semplice zimbello delle cose, null’altro che un corpo, distratto da un profumo, preoccupato d’un soffio, vagamente attento al ronzio incessante di un’ape.
Come com-prendere in una forma sola le innumerevoli dimensioni e difformità della vita, i percorsi intrapresi, i sogni segretamente concepiti e magari mai detti, le ambizioni legittime, quelle che forse lo sono meno (chi giudice?), i fallimenti, i successi, le mille cose lasciate a metà?
Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggiore pietà le loro opere interrotte, scrive saggiamente Adriano al suo giovane successore designato. La mia vita, aggiunge, talora mi appare banale… talora mi sembra unica. Nulla vale a spiegarmela: i miei vizi, le mie virtù, sono assolutamente insufficienti; vi riesce di più la mia gioia; ma a intervalli, senza continuità, e soprattutto senza un serio motivo.
Non è forse questa la dimensione più umana della felicità e ciò che dà maggiormente senso ad una vita? Un susseguirsi frammentato di piccole gioie, di cui la maggior parte senza un serio motivo. Ma spesso, inconsapevoli, viviamo nell’attesa, nella recriminazione, nella non accettazione e, bravi a sostituire le immagini di falsi idoli piuttosto che ad ammetterne l’inconsistenza, ci pieghiamo sotto il prossimo giogo, pronti a sacrificare l’unica cosa atta a darci la leggerezza del volo: la libertà. Anche di accettare le cose della vita così come sono.
La conquista nella quale ho impegnato tutto me stesso –la più ardua – è stata quella della libertà di assentire. Io volevo lo stato in cui ero. Ciò che avevo, ero stato io a sceglierlo costringendomi soltanto a possederlo totalmente, e ad assaporarlo quanto più possibile.” Cercando l’interessante anche nei lavori più aridi, assumendo un soggetto sgradevole come oggetto di studio dell’umano; accogliendo ogni imprevisto come possibilità nuova. Persino nella sciagura più tremenda, Adriano percepisce l’istante in cui lo sfinimento le sottraeva un poco del suo orrore: era quello in cui la facevo mia accettando di accettarla. E in questo modo, conclude, ho finito per accettare me stesso.
Anche i passi che riguardano la sua dimensione da imperatore e amministratore riservano delle riflessioni che, oggi più che mai, sento urgente risfogliare.
Adriano avverte forte la responsabilità del suo agire, definendola sia nel rapporto con la natura, che con gli uomini, in una dimensione fatta di cura dell’animo e della bellezza.
Sottrattosi alle richieste di un’anziana signora, per il pressare di grandi questioni, avverte poi il peso del suo errore: se mi mancava il tempo per darle retta, mi mancava il tempo per regnare.
Si sente responsabile della bellezza del mondo e sceglie come proprio fine la costruzione dell’armonia in ogni sua forma, perché costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire a quella lenta trasformazione che è la vita stessa delle città. Quanta cura, per escogitare la collocazione esatta d’un ponte e d’una fontana, per dare a una strada di montagna la curva più economica che è al tempo stesso la più pura!
Ognuno sente risuonare nei libri ciò che più parla del proprio vissuto. In questo passo rivivo mio padre.
Adriano conosce bene il valore dei libri, tanto da dedicare cure e grande impegno personale anche nell’edificare diverse Biblioteche: ospedali dell’anima. Che bella questa definizione!
Perché forse è proprio a contatto con la scrittura, le storie e le parole che si definisce la personalità più profonda di un uomo, perché il vero luogo natìo è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.
(nella foto Villa Adriana)