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Di muri antichi, orologiai, resistenza e modernità

3 minuti di lettura

Ci sono edifici moderni che si sfaldano per un improvviso crollo traumatico e altri, spesso quelli più antichi, che, lentamente, inavvertitamente, con modalità che passano per assestamenti  naturali, ricevono ogni giorno piccole scosse. In pochi le percepiscono. A volte nemmeno quelli che vi abitano. Ma le pietre sì. A loro nulla sfugge: ammortizzano, si inclinano, resistono, trovano nuovi equilibri, assetti inediti perché la casa possa restare in piedi; ma tra le loro linee tondeggianti, morbidamente incastrate, la calce impastata all’intonaco comincia a sbriciolarsi. E nella trama delle linee verticali che incrociano con regolarità quelle orizzontali inizi a riconoscere le curve di una crepa che fende il tessuto in diagonale, con margini irregolari, come quelli di una ferita dai lembi scomposti. Forse recente, forse di ieri: o magari, chissà, di mesi o anni fa. Fors’anche secoli, per gli edifici antichi.

È strano come solo alcuni riescano a leggere in questa trama, riconoscerla, interpretarla. I più vedranno solo mura dritte e solide; pareti inerti, silenziose. Occhi più analitici e addestrati sapranno invece sentirne l’alito vitale e ricondurne le vicende alla categoria di situazioni che hanno altre volte considerato, studiato e fatto loro. Che grande questa capacità! A me manca, molto spesso, insieme ai nomi per definire le cose, le situazioni, i ruoli, i sentimenti. D’altra parte, faccio enorme fatica anche a ricordare i nomi di persone dal volto ben noto. Chissà perché!

Quelli più solidi sono quasi sempre gli edifici antecedenti ad ogni norma antisismica, quelli che, paradossalmente, sono rimasti in piedi anche alle più temibili magnitudo, laddove pietra, calce e malta sono stati, con sapienza, miscelati insieme per raggiungere un’elevata capacità di assorbimento degli urti e di successivo riadattamento.

Il cemento armato no, quello è un’altra storia. Progettato per durare poco, per essere distrutto e poi sostituito; armato, certo, ma di un ferro che arrugginisce presto e non è capace di autorigenerarsi; rigido, incapace di trovare nuovi assetti. 

È un po’ la storia della modernità che è così: tutto fatto per durare poco, per non resistere agli urti, per rompersi velocemente ed essere direttamente sostituito. Ci avete fatto caso? Qualsiasi componente si distrugga oggi, di un qualsivoglia elettrodomestico o utensile attuale, ci sentiremo dire che è più semplice gettarlo e prenderne uno nuovo che provare a ripararlo e mantenerlo in vita. Sarà per questo che non si trovano più botteghe di piccoli omini che riparano computer, tv, cellulari, frigoriferi... E un orologiaio? Ma che fine hanno fatto gli orologiai? Quando il ticchettio si blocca, una lancetta si inarca, il giro non è più ben oleato, faremo prima a prendere un nuovo orologio. Tanto per quello che costano oggi! Così. Sempre così ci dicono.

E perciò non ci sono orologiai, non ci sono omini ripara tutto; e forse per le stesse ragioni, trasportate su altri piani, sono introvabili, quasi assenti le figure dei mediatori. Mediatori familiari, matrimoniali, aziendali, politici, culturali, amicali. Quelli di professione, certo, ma anche amici, colleghi, parenti, persone che spontaneamente scelgono, o sono portati a questo ruolo, piuttosto che a quello degli incendiari rottamatori o degli indifferenti.

Osservare, ascoltare ingranaggi e umori, capire dov’è l’inghippo, che cosa non ha  funzionato, cercare vie e modi per ricomporre, nuovi impasti per ricucire la fessura… tutto questo costa fatica, impegno, ascolto, disponibilità a mettersi in gioco, a scambiarsi i ruoli per assumere l’altro punto di vista. Procedimento che richiede tempo. Ma il tempo è merce rara, signori!. E l’attesa fuori dalle nostre vite scordate, oramai. Manca la capacità di mediare, come a volte il più basilare dialogo. Quanti rapporti si chiudono senza parole, se non quelle dette nei moti d’ira! Nessun chiarimento, reimpasto; nessuna riparazione. D’altra parte, quando la logica a cui ci educano è questa, applicarla in ogni campo è un passo. Breve quanto un abisso; insapore quanto il vuoto lasciato da quella tv rotta la cui assenza è testimoniata solo dalla polvere che le si era depositata intorno.

Rottamiamo, cambiamo, sostituiamo, buttiamo giù, convinti che tirare su un edificio nuovo sarà più semplice ed economico. Asettico, odoroso di nuovo e di illusorio benessere al cellofan, il nuovo orologio o forse l’ultimo cellulare si posa sul nostro comodino, estraneo all’abat jour e al profumo delle lenzuola di ieri. Ma va bene così.

I palazzi antichi, gli oggetti di lunga data, le rughe che hanno saputo raccogliere e disperdere lacrime e delusioni, le ruvidezze di mani che hanno provato a limare, incollare, attaccare, creando nuovi incastri capaci di reggere, ci raccontano un’altra storia.

È indubbio: ciò che non ha in sé le caratteristiche progettuali per resistere a lungo si romperà inevitabilmente e l’edificio costruito su fondamenta insufficienti o sbagliate è meglio abbandonarlo prima che faccia male a noi e a tanti.

Ma quei muri di pietra, i solchi sulle mani, tanti sorrisi dolce-amari ci insegnano che la resistenza non è solo quella dei partigiani, della grande storia scritta nei libri di scuola; ma è anche quella di tanta gente comune, senza volto e senza nome, che ogni giorno combatte per non rottamare; che lotta per sfuggire alla pervadente, facile e diffusa conflittualità che percorre tanti corridoi lastricati di indifferenza, superficialità,  incomunicabilità; che si impegna giorno dopo giorno per cercare, con fatica, una ragione e un modo per riadattarsi e ricomporre nuovi equilibri.

Alessandra Mazzei
Autore: Alessandra Mazzei

Diploma classico, laurea in Lettere classiche a La Sapienza, Master in Pedagogia, insegue una non facile conciliazione tra bios theoretikos e practikos, dimensione riflessiva e solitaria, e progettualità concreta e socialmente condivisa. Docente di Italiano e Latino, già Assessore alla Cultura e Turismo di Rossano, impegnata in diverse associazioni socio-culturali, ma, prima e più di ogni altra cosa, mamma, felice, di Chiara Stella, Gabriele e Sara Genise. Ha grande fiducia nelle capacità dei giovani, degli studenti, di quelli che poi restano e di quelli che vanno pensando un giorno di tornare. Spera di poter contribuire, insieme a loro e ad amici ottimisti, alla valorizzazione di questa terra di cui sente da sempre la forza delle radici, accanto al bisogno di paesaggi culturali ampi e aperti. Ama la scrittura, che vive, al pari dell’insegnamento, come itinerario di ricerca e crescita personale, da coltivare in forme individuali e collettive.