NUGAE - Dante, la “biodiversità” e la leggenda personale
Sul benessere dell’ecosistema sociale e il diritto-dovere di realizzare se stesso
«Sarebbe il peggio/ per l’omo in terra, se non fosse cive?». «Sì», rispuos’ io; […]// «E puot’ elli esser, se giù non si vive/ diversamente per diversi offici?/ Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive». […] «Dunque esser diverse/ convien di vostri effetti le radici.
Paradiso, luce, bellezza tra queste anime che in armonia si muovono, cantando, liete di parlare a colui che va cercando delle cose della vita il senso dove essa si è trasfigurata in forme altre.
Ancora più benigna si mostra una di queste, sia perché è della carola degli spiriti amanti, nel senso più ampio del termine, e sia perché, in vita, proprio per Dante provò quell’amore che più scalda il cuore: l’amicizia.
Il personaggio è d’alto rango, regnante su vasti domini, ma morto giovanissimo, non senza, però, prima dare prova delle sue qualità. È Carlo Martello. A lui l’autore affida una delle teorie alle quali -credo- più tenne, perché interseca il piano socio-politico e prova a dar ragione dei comportamenti umani e della possibilità d’essere felici.
Lo sviluppo è sillogistico. Gli uomini, Aristotele insegna, sono fatti per vivere in società. Questa è un’organizzazione complessa in cui vi sono numerosi e diversi ruoli che gli uomini devono svolgere. Ognuno essenziale. Perciò Dio -Provvidenza che il mondo ha predisposto al meglio- ha forgiato gli individui con differenti inclinazioni, cosicché ciascuno potesse svolgere bene la propria mansione per il sistema e, al contempo, se ne sentisse appagato.
La bellezza di questa concezione, che qui è di matrice ovviamente cristiana, ma potrebbe essere antropologicamente laica e scientificamente naturalistica, viene dalla certezza che noi siamo in un mondo fatto su misura per noi e destinati alla felicità e a compiere il bene.
Oso. E collego questo ragionamento al concetto -ben più moderno- di ecosistema, stimolata da altre parole di questo passo della Commedia, seppur di esse non mi sfugga l’so metaforico: radici, semi, o, più avanti, la sua variante semente.
La società, come dimensione degli uomini organizzata secondo principi non meno congeniti di altri operanti in natura, è un ecosistema di cui come esseri viventi siamo parte.
La biodiversità, che è la variabilità tra organismi all’interno di un sistema (Treccani), è declinabile anche in termini sociali: ogni forma, ogni individuo, dal più piccolo al più grande, nella sua unicità, è indispensabile al mantenimento e all’equilibrio dell’intera organizzazione, che funziona se ciascuno realizza la specificità che è stato chiamato ad essere, a rappresentare; a svolgere.
La diversità, quindi, non è elemento tollerabile o da tollerare, ma necessità preziosa, predisposta secondo natura (in una dimensione teleologica o meno, a seconda del nostro credo); non elemento disturbante, ma condizione funzionale, intrinseca alla vitalità stessa del sistema. Più sviluppata è la biodiversità, più questo ha la possibilità di reagire ai cambiamenti, agli scossoni, alle crisi.
Rispettare anche il più piccolo anello della catena, riconoscendone l’importanza, è rispettare non solo l’altro, ma l’organizzazione stessa della quale facciamo parte come animali sociali ed esseri naturali, permeati, dalla nascita, di una leggenda personale che siamo chiamati a realizzare, a prescindere (è sempre Dante che lo dice) dalla famiglia di appartenenza.
Ciò implica una visione tutt’altro che cristallizzata del sistema.
Il gioco dei ruoli, i volti e le forme che li realizzano sono assolutamente variabili in questo equilibrio dinamico; i principi di flessibilità, ricambio, scambio ossigenante, altrettanto indispensabili al bene comune.
E’ quando la consapevolezza di ciò manca che storicamente si determinano danni e traumi, la cui portata è legata alla possibilità di espressione e azione lasciata all’ignoranza di chi non sa o non vuole riflettere sulle conseguenze delle proprie scelte.
E’ il concetto di irresponsabilità, antitetico a sostenibilità.
A mettere a rischio la biodiversità, insomma, è sempre l’azione umana, quando interviene ad alterare ciò che è stato predisposto.
«Sempre natura, se fortuna trova/ discorde a sé, com’ogne altra semente/ fuor di sua regïon, fa mala prova.// E se ’l mondo là giù ponesse mente/ al fondamento che natura pone,/ seguendo lui, avria buona la gente.//
Tra le colpe di chi non rispetta la natura vi è anche quella di non riconoscere e realizzare il talento per cui ogni uomo è stato creato, chiosa il poeta in conclusione.
Ma voi torcete a la religïone/ tal che fia nato a cignersi la spada,/ e fate re di tal ch’è da sermone;//onde la traccia vostra è fuor di strada».
La modernità di Dante ci parla ancora e ancora, suggerendoci che prendersi (o dare) la libertà di realizzare la propria leggenda personale non è solo un diritto per aprirsi la strada ad una felicità individuale, ma è un dovere per contribuire al buon funzionamento e alla salute del sistema.
Quando così è, anche se le forze del male mettono a dura prova la società, come in quel 23 maggio del ‘92, ci saranno sempre nuovi eroi. Dai fiori caduti nasceranno nuovi semi, metteranno radici e l’albero del bene tornerà vigoroso.
in copertina: particolare "Io e il villaggio" di Marc Chagall