Di nuovi eroi e del valore della sconfitta
“Si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati!” (Pasolini/Gasparro)
C’è una parola nella cultura orientale, nipponica in particolare, che sento fortemente attuale: hoganbiiki. E’ la ”simpatia verso il perdente”.
Se ognuno di noi è perdente, prima o poi nella vita, di certo lo siamo tutti in questo periodo. Stiamo tutti perdendo. Lavoro, salute, libertà. Affetti.
Noi occidentali siamo figli di una cultura incentrata sull’esaltazione del vincente. L’agonismo fa parte del nostro DNA ellenico, accanto alla mitologica esaltazione per la Nike, la vittoria appunto.
Così, consapevoli o meno, cresciamo ed educhiamo le nuove generazioni perché siano vincenti a scuola, nello sport, nella società, nel lavoro, nei dibattiti, nelle relazioni, nella vita in genere.
I pochi sul podio assurgono a paradigmi di grandezza e diventano destinatari di un’idolatria generalizzata, infantile; mentre i perdenti assommano alla sconfitta in sé spesso la solitudine, la svalutazione sociale, l’idea di essere considerati – quindi essere?- nullità. “Sfigati”.
Sarebbe interessante calcolare il prezzo sociale di questa mentalità.
Abbiamo possibilità di alleggerire quest’ermeneutica dell’antitesi vittoria/sconfitta?
E’ possibile costruire una nuova apologia del perdente?
Credo di sì, pur senza che ciò debba necessariamente significare una demonizzazione del vincitore. Ma nemmeno il contrario.
Si tratterebbe di sposare quel concetto di matrice ellenistica (il volto più orientale della nostra mentalità ponentina), che riconosce la nobiltà proprio nella capacità di accogliere e accettare entrambi gli stati, considerati nella loro inevitabile dialettica interna alle nostre vite.
Certo, vincere, riuscire in un’impresa, è spesso frutto di grande impegno, sacrificio, realizzazione di potenzialità, intelligenza versatile, coraggio e tanto altro. E in quanto tale è giusto ed è bene riconoscerne i meriti.
Ma, se da una parte non è sempre così, certamente non può valere mai l’assioma che chi non vince sia privo di valore e che non riuscire sia sinonimo di incapacità.
Mai perdere deve essere considerato un fallimento. Per dirla col poeta statunitense Woodberry, il non provare è il peggior fallimento, non la sconfitta in sé.
Nel Giappone, da cui siamo partiti, nel 1975 Ivan Morris pubblicava La nobiltà della sconfitta, testo di enorme successo, uscito in Italia nel 1983, dove vengono narrate le parabole di vita di nove personaggi famosi della storia nipponica, di diversa tipologia, tutti accomunati dall’essere stati perdenti e oggetto di quella sociologica simpatia, che la cultura levantina ha posto a cardine di una mentalità diffusa.
In verità nella nostra letteratura non manca qualche felice eccezione alla massificata narrazione delle vittorie.
Chi non ha amato infinitamente Ettore, per il suo essere eroe sì, ma uomo che conosce e riconosce la paura e la sconfitta, quanto più la sente vicina? Ma non è forse Achille stesso un perdente? Sa in partenza di esserlo, eppure ciò non gli impedisce di combattere.
Chi, con Manzoni, non ha amato infinitamente più Adelchi che Carlo Magno? Non tanto per l’etica cristiana in sé, espressa dallo scrittore milanese, quanto per quel vigore, tutto umano e laico, dell’uomo che accetta di perdere, se questo è il prezzo per non smarrire se stesso.
Ma, al di là dei prìncipi, dei samurai, dei grandi condottieri o statisti, sono i perdenti di tutti i giorni i veri eroi del nostro tempo. Le persone comuni che ogni mattina si alzano con la paura di non farcela e devono fare i conti con quel demone che ingombra l’animo con le cupe ansie di un fallimento che, da economico o professionale o anche relazionale, rischia di essere percepito come esistenziale.
Sono padri di famiglia, donne sempre in affanno; ma anche tanti ragazzi. E chissà se forse non riguardi anche bambini e anziani!
Non so se la pandemia -con questa somma di crisi universale e di tante piccole storie di crisi individuali-, che arriva al capolinea di una recessione già in atto da tempo, possa aiutarci a ribaltare questa logica del fallimento.
Certo è che negli ultimi anni, anche il diritto sembra avere modificato atteggiamento nei confronti della crisi di impresa, puntando alla cancellazione del termine “fallimento” e specialmente a sostituire l’atteggiamento “afflittivo e sanzionatorio”, che prima puntava solo ad estromettere, in favore, invece, di una gestione accompagnata della crisi, che punta alla riabilitazione e ad un reinserimento. Ad una ripartenza.
Varrà allora la pena riproporre, come attuale più che mai, quell’indimenticabile elogio della sconfitta, generalmente attribuito a Pasolini -che certo lo ispirò, ma che in forma più articolata fu espresso da Rosaria Gasparro: è urgente lavorare alla costruzione di un immaginario sociale che ci liberi dall’ossessione del successo a tutti i costi, che possa sdoganare l’ansia del fallimento, incardinando le sconfitte, gli errori, le crisi, in un percorso formativo che, se ben gestito, migliora la persona e con essa il piccolo o grande mondo che le ruota intorno.