Referendum e il Voto (non Voto) di coscienza
Tra diritto sacro e atto di profonda libertà, la scelta di partecipare pone un'interrogativo sull'efficacia della volontà degli elettori, specie in un Paese dove il vero cambiamento passa quasi sempre da equilibri profondi e poco popolari

In una democrazia, l'atto del voto è da sempre riconosciuto come lo strumento più potente, l’espressioni più dirette della volontà popolare. È un'opportunità che ci chiama a scegliere, con la testa e con il cuore, e a non cedere alla rassegnazione, all'inazione o all’alienazione sociale, di fronte alle sfide che riguardano la nostra collettività. La partecipazione civica e una costante vigilanza popolare sono il baluardo contro gli interessi di parte e contro le derive autoritarie.
Oggi, mentre ci avviciniamo al referendum dell'8 e 9 giugno prossimi, torniamo a confrontarci con il significato profondo di questo gesto nell'urna. Se il voto è un diritto e uno strumento, è anche e soprattutto una questione di coscienza individuale. Un atto che riflette il nostro più intimo libero arbitrio. Perché - è questo il caso - non si tratta più di delegare (e quindi della capacità di saper ben delegare!) ma di scegliere una rotta o, al contrario, di scegliere, consapevolmente, di non scegliere.
Non si tratta più, in questo specifico frangente referendario, di porsi su schieramenti definiti o figure politiche. E fare una scelta. Si tratta di esprimere una posizione su un quesito preciso, o di scegliere deliberatamente di non farlo. Ed è proprio qui che il valore della coscienza si manifesta pienamente.
Di fronte alle dinamiche complesse del nostro Paese, dove spesso la percezione è che i cambiamenti reali siano ostacolati da meccanismi più grandi della volontà popolare, la decisione di recarsi alle urne o di astenersi assume un significato comunque forte. Sia nel caso che nell’altro. Anche perché, in Democrazia, quasi mai il popolo è artefice reale dei cambiamenti. C’è lo Stato profondo che agisce e decide per tutti e in barba a tutti.
Soprattutto alle nostre latitudini, quelle del nostro glocal, le scelte referendarie che riguardano il lavoro e la cittadinanza, sembrano argomenti così alti e nobili da essere quasi fuori dalle nostre orbite quotidiane. In un territorio dove le opportunità di impiego scarseggiano e i giovani sono costretti a emigrare, dove la dignità del lavoro è messa a dura prova e gli stranieri sono troppo spesso trattati come schiavi, la portata di certi quesiti rischia di apparire distante, quasi aliena rispetto alle urgenze tangibili.
Votare, certo, è un atto di partecipazione, una rivendicazione della propria voce. Ma anche scegliere di non votare, se frutto di una riflessione profonda e non di mera indifferenza, può essere una forma di espressione; una dichiarazione di non aderenza o di disillusione rispetto a un percorso che non si percepisce come efficace per quel cambiamento che in tanti anelano ma che poi nessuno è capace di realizzare. Non è una condanna, ma una presa di posizione consapevole.
Il vero “potere al popolo”, in effetti, non si esaurisce nell'urna, né in un singolo gesto. Si consolida nella capacità di analizzare, di discernere e di agire secondo la propria morale e le proprie convinzioni.
Quindi, al Referendum (che non è e non può essere confuso con la elezione degli organi democratici) andiamo o non andiamo alle urne con la consapevolezza che il voto, così come il non voto, sono un diritto inviolabile e, in questo caso, anche un'espressione della nostra democrazia, della nostra volontà di partecipazione. Ma facciamolo soprattutto con la coscienza che la scelta di come esercitare questo diritto, o di non esercitarlo affatto, in un contesto dove il vero cambiamento sembra un orizzonte sfuggente, è un atto di profonda libertà individuale. Ognuno faccia ciò che ritiene più giusto, con la serena convinzione che la propria autonomia di pensiero sia il motore più autentico di ogni possibile, futuro, cambiamento. Tanto, in cabina o al mare, non è questo il momento della vera rivoluzione!