Le nuove generazioni di Corigliano-Rossano sono alla fame
Il sottosviluppo avanza come il nulla dei romanzi di Ende. I dati Caritas hanno cristallizzato solo un problema: c'è povertà tra i giovani del posto che scappano in cerca di lavoro mentre qui continuano ad arrivare altri giovani in cerca di dignità

L'umana Commedia della Calabria del nord-est si cristallizza nei numeri presentati dalla Caritas Diocesana di Corigliano-Rossano nel report "La povertà ci interpella, la carità ci guida". Purtroppo non sono solo numeri, non sono solo statistiche. Sono uno specchio impietoso di una realtà che urla nel silenzio assordante di questo territorio, un grido soffocato che chi è al governo delle istituzioni, a tutti i livelli, dovrebbe sentire con la stessa chiarezza di chi lo vive sulla propria pelle.
Qui, nella nostra terra, la generazione più produttiva – quella tra i 25 e i 45 anni, che dovrebbe essere il motore del nostro futuro – è condannata alla fame, costretta a fare i bagagli e a cercare altrove quella dignità lavorativa che casa nostra le nega. Lo diciamo da sempre, ogni statistica "conforta" questa tesi. Eppure nessuno muove un dito. Nessuno fa nulla per invertire la rotta.
Mentre i nostri figli, i nostri fratelli, le nostre intelligenze si svuotano dalle tasche e dal cuore, questa stessa terra, bella e maledetta, è tra quelle dove si continua a registrare la maggiore presenza di stranieri. È un paradosso amaro, una beffa crudele. Come ha giustamente sottolineato da Michele Sapia, segretario generale della Cisl Cosenza, durante l'ultimo talk dell'Eco in Diretta «i profughi sbarcano nel sud e nel centro della Calabria, e poi arrivano qui».
E arrivano qui, in un luogo dove c'è tantissimo lavoro "umile" che diventa, così, sinonimo di sfruttamento, dove i livelli salariali sono così bassi da sfiorare l'elemosina, dove il caporalato è una piaga radicata e l'agricoltura, pur essendo un'eccellenza, è l'emblema di un sottosviluppo che fa rabbrividire.
Cinque euro l'ora. Cinque euro l'ora! Una miseria totale per chiunque, certo. Ma mentre per gli immigrati, questi pochi euro possono rappresentare un barlume di speranza, un sollievo al nulla, per i nostri giovani sono un macigno, la spinta finale che li costringe a prendere quella valigia e a spezzare il legame con la propria terra. Non si tratta di una competizione tra poveri, ma di una vergogna collettiva che ci riguarda tutti.
Il report della Caritas ci sbatte in faccia una verità scomoda: l'aumento delle famiglie assistite, passate da 198 nel 2022 a 348 nel 2024, con una prevalenza di italiani. La fascia d'età più colpita è quella tra i 45 e i 54 anni, seguita a ruota dai 25-34enni, molti dei quali affermano di non avere famiglie capaci di offrire sostegno economico. Non è un caso che, tra gli stranieri, la fascia più rappresentata sia quella tra i 35 e i 44 anni. Questi dati, nudi e crudi, dimostrano inequivocabilmente che la mancanza di lavoro e l'assenza di prospettive di vita dignitose per le fasce più giovani sono il vero tallone d'Achille del nostro territorio.
E non parliamo solo di disoccupazione. Il 40,5% delle richieste ai centri Caritas riguarda la povertà e i problemi economici, seguita dai problemi di disoccupazione e lavoro (16%), dalla povertà abitativa (12%) e dai problemi familiari (9,5%). Dietro questi numeri ci sono storie, volti, sofferenze indicibili. Ci sono gli anziani con pensioni sociali che non bastano a garantire una vita dignitosa, e i "poveri cronici" che, a causa di un titolo di studio spesso basso, sono intrappolati in un circolo vizioso di precarietà.
La Caritas, con i suoi 22 mila euro spesi nel 2024 per bollette, affitti, farmaci e persino funerali per persone in difficoltà, fa l'impossibile con il poco che ha. L'Emporio della Solidarietà assiste centinaia di famiglie, e l'accordo con l'Uepe offre un po' di speranza a chi cerca una seconda possibilità. Ma tutto questo, seppur encomiabile, è un cerotto su una ferita aperta.
Eppure, questo, non è un problema di "loro" o di "noi". È un problema di un sistema malato che sfrutta le debolezze e le necessità, che non riesce a creare opportunità per i propri figli e che, allo stesso tempo, attira una manodopera disposta a tutto per sopravvivere.
Ma questo ci dice anche che non possiamo girarci dall'altra parte. Che tanto finto perbenismo ha solo demolito (e continua a farlo) il già delicatissimo equilibrio che tiene in piedi la convivenza tra le diverse anime della società.
È il tempo della consapevolezza, è il tempo che la società civile si confronti seriamente con chi governa. Non possiamo permettere che la nostra generazione produttiva continui a emigrare in cerca di un futuro che qui le viene negato, mentre il nostro territorio, pur con le sue ricchezze, resta intrappolato nelle maglie di un sottosviluppo disonorevole. È ora di agire, prima che sia troppo tardi, prima che questa terra diventi solo un guscio vuoto, con il cuore dei suoi figli disperso ai quattro venti. Bisogna dare subito dignità al lavoro! Il sottosviluppo qui avanza come il nulla di Michael Ende.