Ma dopo il patibolo dei social, cosa resta?
Sassi da sottopasso: punirne uno per educarne cento! Benissimo. Solo che al netto delle accuse e delle condanne virtuali nessuno ha pensato di denunciare e di costituirsi parte civile contro gli incivili

Torno a ribadirlo con forza e con ulteriore e necessaria chiarezza: la condanna per il gesto di quei tre giovani sul sottopasso di Sant'Angelo è sacrosanta, necessaria. Nessuno l'ha messa in dubbio, nessuno vuole lasciarli impuniti.
Ma dopo il patibolo virtuale, dopo la sentenza sommaria dei social, cosa resta? Forse una punizione esemplare, come quel vecchio adagio del Punirne uno per educarne cento?
Potrebbe anche essere una soluzione, persino condivisibile. Ma non dimentichiamo che chi sperimentò queste punizioni aveva ben presente anche la necessità di una rieducazione efficace. Perché chiunque commette un errore non deve essere abbandonato a se stesso, ma va corretto e reinserito nel tessuto sociale. Questa è una regola fondamentale. Ma non è una regola applicabile, oggi, alla nostra società; proprio per le preoccupazioni che evidenziavo nel corsivo di sabato (leggi qui).
Non tutti i ragazzi sono uguali. C'è chi ha la fortuna di nascere e crescere in un ambiente fertile di stimoli culturali: libri, viaggi, studio… Ma non tutti godono di questa opportunità; e non c'è nemmeno uno Stato sociale che garantisca i servizi minimi, quel "minimo sindacale" che un tempo veniva assicurato a tutti. Penso alle colonie estive in Sila, un diritto allo svago per tutti i ragazzi, indipendentemente dal censo. Oggi, quel minimo non è più garantito. Non esiste e nemmeno è pensabile. Così come ai nostri giovani non sono garantiti tanti diritti. Uno su tutti: il diritto alla felicità.
Le nuove generazioni soffocano i loro sogni in una pozzanghera di ovvietà e necessità primarie. Per farsi un'idea di questo basterebbe guardare il nostro servizio-inchiesta tra i ragazzi di Corigliano-Rossano, di qualche settimana fa, per rendersi conto che oggi la massima aspirazione dei ragazzi di questa città è un supermercato aperto la domenica o un distributore di sigarette nei luoghi che frequentano. Non conoscono altro, non hanno altri punti di riferimento al di fuori della "caverna platonica" del loro guscio.
I loro sogni reconditi rimangono tali, inespressi, e pochi – a parte la famiglia, la scuola o qualche eroico presidio associativo – li aiutano a coltivarli e a trasformarli in realtà. Solo chi ha veramente grandissima determinazione o una famiglia economicamente solida alle spalle, o tutte e due, può farcela in solitaria. Per tutti gli altri c'è l'apatia del presente. E chissà che la "adrenalina", nel contesto di una noia mortale, non si manifesti proprio in gesti folli come lanciare sassi addosso ai passanti.
Ecco perché ho scritto che su quel sottopasso ci siamo tutti. Perché di questi e di tutti gli altri giovani - al di là della condanna per le loro malefatte - non interessa niente a nessuno. Per l'opinione pubblica, sono ormai solo automi rincoglioniti davanti ai telefoni, viziati, persone senza aspirazioni, paurosi e capricciosi. Ma, stranamente, solo i figli degli altri; perché i propri figli – ovviamente - sono sempre scienziati, modelli, sprecati per questa società. Esenti dal baratro!
Su quel sottopasso ci siamo tutti perché, pur avendo visto, pur essendoci indignati, pur avendo emesso la nostra sentenza di condanna, di fatto nessuno ha avuto il coraggio di denunciare i fatti agli organi competenti, costituendosi parte civile contro quell'inciviltà.
La sentenza l'abbiamo data, la condanna è pronta. Giusto. Ed è senza appelli perché questi errori arrivano dal passato e non c'è motivo di ripeterli. Anche quando ero io adolescente le mascalzonate dei giovani erano un continuo, ma ieri, rispetto a oggi, non c'era il tribunale dei social che mette sullo stesso piano ogni crimine, senza distinzione alcuna e partorendo quanto di più diabolico possa esserci in una società iperdemocratica: la bulimia giustizialista.
Non dobbiamo e non possiamo essere tutti d'accordo, ma una cosa è certa: nel processo di consapevolezza e autoconsapevolezza che stiamo cercando di innescare nel nostro "glocal", anche le provocazioni più crude, indigeste e fastidiose per l'opinione pubblica possono diventare un motore per il dibattito, per il confronto, per plasmare un'opinione collettiva. E già questa, in fondo, è una grandissima conquista.