Una questione di sordità generazionale
Siamo pronti ad ascoltare il grido silenzioso dei giovani o continuiamo a scrollare sui social?
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Anche ad ottanta anni non si è quello che si crede di essere. Partendo da questo presupposto ci si può rapportare con i ragazzi di oggi, adolescenti e giovani virgulti che attraversano i vent’anni. La più grande scoperta che un essere umano possa fare è che bisogna parlare ogni singolo giorno con il proprio bambino interiore e, volendo, anche con l’adolescente che si è stato.
Amo definire l’adolescenza come un viaggio, quasi come se fosse un ablativo latino: Ad-olescenza, cioè come un viaggio verso la completezza. È un imperativo, questa gioventù è completa: è speculativa, ricca di punti di forza, curiosa, attenta, sensibile e con una marcata quanto sofisticata sofferenza. Loro, a differenza di altre generazioni, in quella sofferenza ci abitano e ci restano.
Ho conosciuto ragazzi senza padri che cercavano lo scontro per sentire l’autorità, ragazze con a casa uomini inadeguati che a natale regalano biscotti a forma di omino di marzapane, quasi bambini che si lamentavano “vedo più lei che mamma”. Allora rendiamoci conto che l’errore principale viene sempre da noi adulti, che della famiglia ce ne freghiamo altamente: serve solo, tante volte, per avere figli a creare una pienezza in un buco di solitudine che ognuno di noi ha. Qualsiasi disagio, anche il minimo, proviene dal nucleo familiare che è retto da adulti, non da ragazzini.
I figli sono degli estranei che mettiamo alla luce, non sono propaggini di carne e parole. “Possiamo spegnere le luci e ascoltare la pioggia che cade? Promettiamo che stiamo zitti”. Chi della nostra generazione avrebbe avuto una spinta così alta di sensibilità? Lo scrivo a chiare lettere: nessuno. A maggior ragione se quella ragazza, poco più di una bambina, scriveva nel tema che “quando facevo la cattiva papà mi chiudeva nel bagno. Quando uscivo mi facevo vedere forte, non avevo pianto e papà restava muto, lo lasciavo senza parole”. Cosa vogliamo da loro se noi siamo i primi a non dare un esempio? Che colpa hanno loro se ci preoccupiamo solo del voto a scuola oppure se sono felici oppure no? Li facciamo pascolare a scuola perché serve per un lavoro e per fare soldi, non per accrescersi ed elevarsi come esseri umani.
Gli antichi egizi disegnavano geroglifici con tutto il loro sdegno nei confronti delle nuove generazioni. Platone se la prendeva contro una massa inerme di rammolliti. Il sentimento di invidia è sempre presente per la freschezza e la gioia. L’umano desiderio di emergere però ha sempre avuto la meglio, il mondo è diventato un posto più bello secolo dopo secolo. Ultimo capitolo viene dai social: i disadattati che pubblicano le storie sulle cene che mangiano e di fantomatiche giornate fantastiche che passano siamo noi adulti.
Lo si fa per riempire vuoti, e siamo grandi abbastanza da non capirlo. Gli adolescenti si nascondono il viso con la mano facendo la V che significa vittoria, non pubblicano mai. Ci stanno facendo capire che la battaglia si svolge sui social, che oltre a creare danni psicologici non funzionano più.
Il problema che stanno mutando in maniera più viscida, una nuova televisione con meno utenti e più creatori di contenuti. In sostanza li stiamo abituando noi, fin dalla culla, a disabituarsi alla realtà. Ma quella realtà vive ancora in loro e nella loro fame e sete di essere visti.