Il calcio che non vogliamo
Il calcio, se vuole essere davvero popolare, deve tornare ad essere un luogo per le famiglie, non per le tensioni
C’è un momento, durante certe domeniche di sport, in cui la passione si spezza. È successo al “Rizzo” di Rossano, dove una giornata che doveva celebrare il calcio e la comunità si è trasformata in un episodio amaro, difficile da accettare.
La gara tra Rossanese e Trebisacce, vinta nettamente dagli ospiti, ha finito per passare in secondo piano di fronte a quanto accaduto sugli spalti: disordini, lanci di oggetti, una donna ferita, e una sospensione forzata del gioco. Scene che non dovrebbero mai appartenere al nostro sport, ma che purtroppo continuano a riaffacciarsi, rovinando ciò che di bello il calcio sa ancora offrire.
Quello che più colpisce non è solo la gravità dei fatti, ma la sensazione di amarezza che lasciano. Perché lo sport, soprattutto a questi livelli, è e deve restare un’occasione di incontro e di festa, non di rabbia o sfogo.
Le tensioni accumulate nelle ultime settimane, la delusione per i risultati, la frustrazione per una prestazione negativa possono spiegare un clima esasperato, ma non lo possono in alcun modo giustificare. Nessuna passione sportiva può legittimare la violenza, l’offesa o l’intimidazione.
Il calcio appartiene a tutti: ai giovani che sognano, ai genitori che accompagnano i figli allo stadio, agli anziani che da anni seguono i colori della propria città. È questo il calcio che vogliamo, quello che riempie le gradinate di sorrisi e bandiere, non di sirene e paura.
Eppure, bastano pochi comportamenti irresponsabili a cancellare l’impegno e l’entusiasmo di centinaia di persone corrette, che ogni settimana vivono il calcio come momento di identità e di condivisione.
Di fronte a certi episodi, serve un’assunzione collettiva di responsabilità. Dalle società sportive, che devono condannare con fermezza ogni atto di violenza e collaborare con le autorità; alle istituzioni, chiamate a garantire sicurezza ma anche dialogo e prevenzione; fino ai tifosi, che devono ricordare che la maglia si onora con il tifo, non con la rabbia.
Il calcio, quello vero, è quello che unisce e che emoziona. È quello dei bambini che chiedono un autografo, non quello dei petardi e delle pietre.
Ecco perché quanto accaduto a Rossano lascia l’amaro in bocca: non solo per il gesto in sé, ma perché toglie fiducia a chi ancora crede che una domenica allo stadio possa essere un momento di gioia, di appartenenza, di comunità.
Ritrovare questo spirito non sarà semplice, ma è necessario. Perché il calcio, se vuole essere davvero popolare, deve tornare ad essere un luogo per le famiglie, non per le tensioni. E perché la passione non si misura nel rumore di uno scontro, ma nella bellezza silenziosa di un applauso condiviso