Dietro la violenza di genere: un fenomeno dalla profonda matrice culturale
Dall’inizio dell’anno sono morte 113 donne, una ogni tre giorni, quasi tutte uccise da un convivente o un familiare. Un peso che la collettività è chiamata ad assumersi se non vuole diventare complice
Dall’inizio dell’anno sono morte 113 donne, una ogni tre giorni, quasi tutte uccise da un convivente o un familiare. Scavare dentro i meccanismi che alimentano e di cui si nutre la violenza di genere risulta sempre più complicato e doloroso. Non solo perché le vittime aumentano di anno in anno o perché il fenomeno non accenna ad arrestarsi, ma soprattutto perché il problema – all’apparenza riconosciuto in quanto tale e quindi drammatico sia nelle sue premesse che nei suoi effetti – sembra sempre ridursi a pura retorica e nuda ipocrisia.
Un’ipocrisia trasversale che non va mai oltre la frase di circostanza e che ritroviamo in tutti contesti e in tutte le classi socio-economiche, persino nelle istituzioni. Come definire, ad esempio, le dichiarazioni della Ministra per la famiglia e le pari opportunità, Eugenia Roccella, che sul caso Giulia Cecchettin si è espressa dichiarando che «nessuna legge avrebbe salvato Giulia» (ammettendo di fatto che lo Stato non può proteggere le sue cittadine), salvo poi affermare ieri in Senato che «la violenza va riconosciuta e condannata»? O l’affermazione del Ministro dell'Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, secondo il quale «il patriarcato non esite», pronunciata proprio durante la presentazione, alla Camera dei deputati, della Fondazione dedicata a Giulia Cecchettin? Le istituzioni, e insieme ad esse una buona parte della società, continuano a deresponsabilizzare sé stesse negando il fenomeno per non affrontarlo o per paura di riscoprirsene parte integrante. Minimizzano, tacciando chi lotta per questa causa di abbracciare una ideologia. Ma perché tanta difficoltà nell’ammettere e riconoscere la portata invasiva di questo problema?
Quando si affronta il tema ponendo al centro la matrice culturale e storica del fenomeno patriarcale che ha prodotto la disuguaglianza di genere – e che è alla base delle violenze che la cronaca e la quotidianità ci restituiscono ma che si tende ancora a negare – ci si trincera dietro il dato biologico e si minimizzano i comportamenti e le idee che non manifestano in modo chiaro i segnali di quella data cultura maschilista, poiché entrati a far parte dell’agire e del pensare comune. La reticenza risiede probabilmente nell’incapacità di porsi davanti al dato reale che richiede una certa ammissione di colpevolezza: il problema è dunque riscoprirsi parte di quel meccanismo. In più, molte di queste convinzioni sul rapporto tra i generi possono essere così radicate ed interiorizzate da apparire assolutamente ascrivibili al quadro valoriale in cui si è immersi e dunque accettabili. Spostarsi e vedere il fenomeno da una prospettiva diversa, più ampia è lo sforzo che si sta compiendo in questi anni di lotta e sensibilizzazione sul tema.
Il punto è che, forse, è solo nei gesti estremi ed eclatanti che si è capaci di riconoscere il reato mentre in molti atteggiamenti compiuti con superficialità – e nei quali si annida il potenziale pericolo di sopraffazione e abuso che non deve necessariamente sfociare in un delitto – ci si riscopre cechi ed incapaci di leggerne le eventuali ripercussioni negative o la traccia di un comportamento tossico e malsano. Ciò che dovremmo iniziare a comprendere seriamente, interrogandoci tutti, uomini e donne, è che a quel gesto estremo si arriva dopo una serie di piccole manifestazioni all’apparenza neutre.
Lo sforzo a cui siamo chiamati tutti sarà dunque, ancora, comprendere. Comprendere le radici, le ramificazioni e le manifestazioni del fenomeno in tutte le sue parti perché la violenza più brutale ed efferata è solo l’atto finale della storia: prima c’è tutta la vita.