La città, le piazze e la comunità
Mentre progettiamo in grande a lungo termine, stiamo trascurando intere generazioni di giovani cittadini, rinunciando a crescerli come comunità
Fino a qualche tempo fa, la questione principale su cui, da posizioni più e meno istituzionali, ci siamo spesso interrogati alle nostre latitudini ha riguardato i centri storici. Centri storici di indiscutibili belle fattezze, ma che, avendo perso la maggior parte delle loro funzioni e non essendo riusciti a compensare queste con altre, sono per la maggior parte dei casi rimasti contenitori rimbombanti di edifici, case e magazzini vuoti, con piazze desolate e strade poco frequentate.
Ora, da qualche anno a questa parte, ma con particolare peggioramento negli ultimi tempi, questa medesima preoccupazione sembra doversi rivolgere anche, o prima di tutto, alle aree urbane moderne delle nostre città, quelle che, dalle nostre parti, hanno preso il nome dall’essere sorte intorno agli scali ferroviari, o comunque, in generale, quei centri più dotati di servizi ed attività commerciali.
Una città, grande o piccola che sia (il limite demografico fissato dalle Nazioni unite per definirla tale è di ventimila abitanti, ma al discorso di oggi poco cambia), prima che un agglomerato fisico di edifici residenziali e non, è un concetto sociologico: la risposta a quel bisogno naturale di un centro dove avvenga lo scambio di idee, affari, riti ed altro e dove nascono e si strutturano l’identità di un luogo e l’appartenenza ad esso. La socializzazione, cioè, è il principio base, la funzione prima di ogni città o paese che dir si voglia.
Fulcro e perno di tale socializzazione è la piazza. Non v’è città o paese, se non c’è una piazza. Non v’è democrazia, confronto, identità, appartenenza e qualità della vita sociale se non v’è una piazza. Non v’è comunità che sia sana se non v’è una piazza.
Espressione della cultura classica esportata nel mondo, in quanto frutto maturo di quella democrazia di origine periclea, dall’agorà al foro, essa nasce con criteri ben precisi e sempre dietro profondi e articolati studi di interconnessione e proporzione con le aree circostanti, strade, edifici, paesaggi, monumenti, palazzi civici, etc.
Per capirci e dirla brutalmente, non basta una spianata di cemento a fare una piazza, come spesso avviene nei nostri tempi, in cui la progettazione urbanistica, spesso, specie nei centri di periferia, sembra tristemente rispondere ad altre logiche che quelle di un umanesimo civile improntato a cultura, valori, idee e funzioni. Pur senza pretendere che ogni politico e progettista possa ispirarsi ai modelli della città ideale di Vitruvio, o ai principi di Leon Battista Alberti e del Palladio; e pur accettando che gli spazi urbani e le loro funzioni possano, come inevitabilmente avviene, inserirsi nel fluire storico delle diverse epoche e quindi, in parte, cambiare nel tempo, forse oggi ci diremmo felici anche solo di sapere che la politica, i professionisti di settore, la classe intellettuale e la comunità in generale si pongano il problema, si sentano, nei diversi ruoli, chiamati in causa a ragionare sugli spazi pubblici, che non possono essere tenuti fuori da un più ampio dibattito sulla dialettica civile, sulla rigenerazione urbana e sulla qualità della vita in generale.
Venendo alla nostra realtà, apprezzabile, senz’altro, è il fervore progettuale a lungo termine che sta interessando l’amministrazione.
Tuttavia, in primo luogo sarebbe auspicabile che tali grandi progetti non restassero appannaggio di pochi o affidati solo a post sui social, ma che -sebbene non sia facile, specie per i modelli culturali meridionali spesso troppo accentratori- venissero strategicamente e istituzionalmente comunicati, condivisi, partecipati, com’è dei più positivi modelli di amministrazione trasparente e delle più mature democrazie. Non fosse altro che per avere la certezza, più fondata, di spendere nella direzione giusta i fondi pubblici. Ma non c’è nulla da inventare, basta guardare a buone prassi di tante altre città, anche di grandi realtà come Milano, Bergamo e altre, per verificare che sono prassi da tempo oramai in atto.
In secondo luogo -anche questo so bene che non è semplice farlo, per tante ragioni, ma è indispensabile- occorre non farsi assorbire solo dai grandi progetti e pensare che ogni programmazione, ogni visione di città deve essere scandita a breve, medio e lungo termine. Magari fra dieci anni, o cinque o anche un tempo minore (difficile!) avremo aree e servizi migliori e in più; ma, nel frattempo, come si possono trascurare intere generazioni di oggi, che fra cinque anni saranno oramai altrove e per le quali avremo perso l’opportunità di aiutarle a crescere, educandole ad un vivere civile che abbia davvero il sapore di città, di comunità, di libertà e di cultura?
Come non preoccuparsi nel constatare il completo svuotamento della piazza centrale dello scalo di Rossano, e, in parallelo, la dispersione solitaria o il riversarsi su aree che -per carità!- magari rispondono meglio alle esigenze dei ragazzi (forse perché più verdi, più intime, meno trafficate… su questo occorrerebbe ragionare), ma sono attualmente poco sicure, poco controllate e non curate? Come non chiedersi quali spazi veri e sani di socializzazione abbiano OGGI i nostri concittadini, di varie età, ma – consentitemi-, i nostri adolescenti in particolare?
Ora che abbiamo (certo troppo presto! Ma questo è un altro doloroso capitolo) chiuso le porte del lungomare, dove si vive la bellezza, la piacevolezza e l’eleganza di una passeggiata concentrata in un’area unica, tra locali di vario genere, spazi verdi, ampi orizzonti, giochi, musica, anfiteatro, qualche negozietto (pochi in verità), piste ciclabili e piacevolissime aree pedonali… tornati allo scalo cittadino, dove va la gente per passeggiare e ritrovarsi? Dove vanno, quando escono, i nostri ragazzi, specie quelli under venti? Dove si incontrano? Ci sono aree pedonali concordate con i residenti? Tutte le città fanno a gara, oramai, nel realizzarle e nobilitarle e sembra essersi oramai invertita la percezione per la quale tempo fa i commercianti spesso si opponevano a tali decisioni.
Occorre, certo, dare merito e gratitudine a parrocchie e centri sportivi (molti anche frutto di realizzazione pubblica), per come riescono a catalizzare energie e tempo dei nostri giovani; apprezzare l’attivismo di valenti imprenditori che hanno saputo creare bellissime gelaterie, o pizzerie o qualche pub, che, tuttavia, sono drasticamente sparpagliati, senza quindi contribuire a disegnare alcuna area comune; ma poi, però, serve anche la piazza, o le piazze, quegli spazi pubblici raccolti, sicuri, piacevoli, accoglienti, pensati, progettati, realizzati perché funzionino! Perché il punto è proprio questo: gli spazi devono funzionare, e non è detto che ciò che funzionava decenni prima continui a farlo oggi. Se poi, invece, non hanno mai funzionato, senza né recriminazioni di parte, se e ma, occorre ripensarli i luoghi.
Nel manuale sull’Arte di costruire le città, già nel 1889, l’urbanista austriaco Camillo Sitte scriveva <<Oggi, le piazze servono raramente alle grandi feste popolari e la vita di ogni giorno sembra abbandonarle sempre di più. Esse, spesso, non hanno altra funzione che quella di procurare aria e luce o d’interrompere la monotonia dell’oceano edilizio.>> Non sembra calzare benissimo anche al nostro contesto? Tolti i comizi e i concertoni, che ne è della piazza in tutti gli altri giorni dell’anno?
Non è la piazza a fare la funzione, ma la funzione a fare la piazza e in virtù di ciò essa va pensata e migliorata. Quelle già esistenti e quelle costruende. Che siano luoghi di mercatini tematici, fiere ben contestualizzate, piccoli eventi continuativi e condivisi, chioschi commerciali, spazi verdi attrezzati, setting comodi e rilassanti, stimoli culturali e artistici, aree giochi ed interattive o altro… o che siano, anche solo semplicemente, ameni spazi raccolti, i salotti senza tetto di cui parlano i manuali sull’arte urbanistica dall’antichità al Barocco e oltre, le piazze servono e devono funzionare a raccogliere la comunità, perché una comunità senza aree comuni e pubbliche di incontro, confronto e controllo sociale non è democratica, non è sana, non fa crescere bene e diventa specchio di modelli educativi svuotati di senso, desolanti, privi di relazioni e perciò non di qualità. La piazza educa. In piazza si cresce come cittadini della propria città e del proprio tempo e oggi più che mai non ne possiamo proprio fare a meno!