Cittadini vittime della sindrome del Gattopardo
Mentre si avvicina l’appuntamento elettorale riecheggia la frase più celebre di Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»
Mi ha sempre impressionato l’enigmaticità di quella che è la frase-simbolo del romanzo "Gattopardo": «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». La pronuncia Tancredi, nipote prediletto del principe Fabrizio Salina. È la rapida risposta di un rivoluzionario assennato, che conosce il dolore della frattura con la classe in declino e non vuole tradirla del tutto. Tramontano i Borboni, tramonta la vecchia aristocrazia. Il passaggio radicale sembra attuarsi di labbro in labbro: no, ti prego, sussurra rassegnato Don Fabrizio, sì, per forza, risponde il nipote. Giocano l’uno di fronte all’altro due profeti di due mondi differenti: il vecchio e il nuovo. Non siamo lontani da quella situazione.
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» è una frase che, a ben vedere, nasconde un duplice significato, così vivido al giorno d’oggi. Se vogliamo salvarci, è necessario un cambiamento. Ma il cambiamento non deve aver luogo: non viene dall’esterno. Tutto deve rimanere com’è, se vogliamo che tutto cambi. È forse, questo, il cuore di ogni reale rivoluzione: non abbiamo bisogno di gesti eclatanti, di grandi sospiri e trionfalismi. Il cambiamento deve avvenire all’interno, occupando le parti interiori della nostra anima come l’acqua occupa un recipiente, perché, passata la sbornia dei proclami, davvero tutto rimane com’è. Ecco il duplice significato: se tutto cambia esteriormente, tutto rimane com’è; se tutto rimane com’è, tutto può cambiare interiormente.
Il fattore “disillusivo” che Tomasi presenta al lettore, risiede proprio nel phàrmakon contro la vuota retorica di sovvertimento; è un elemento di risveglio dai grandi abbagli ideologici, guidati sotto l’effimera egida della forza, dello sviluppo cieco, del progresso della specie.
È fondamentale per la nostra terra una rivolta interiore, operata su se stessi, prima che, bruta manu, sugli altri (diversamente sarebbe plagio della coscienza). Non “eh, siamo usciti dalla crisi”, ma una rivolta interiore. Non “quello che abbiamo fatto noi, non l’ha fatto nessuna amministrazione, ma una rivolta interiore. Non “all’arrembaggio, facciamoci giustizia da soli”, ma una rivolta interiore. Se le cose non vanno bene, è perché abbiamo imparato ad esteriorizzare la colpa, come si esteriorizza una rivoluzione. Disimparato a conoscere le responsabilità locali e personali. “Il male viene da fuori, noi siamo vittime innocenti” si sente spesso recriminare. Ciò fa riferimento a qualcosa di impreciso (politica, società, capitalismo) che assomma in sé, nel suo sacro mistero, la vera causa del malessere o dell’oppressione.
Naturalmente esistono cause concrete a provocare una certa condizione di disagio. Ma la nostra vita non può essere in mano, consegnata, ad una parola che suona come uno slogan. Così si fa il gioco di chi non vuole che le cose cambino. L’uomo ama lo slogan più della verità, perché è comoda discolpa. Non possiamo lasciarci vivere da vocaboli che stanno lì fermi, muti, ai quali conferiamo autorità sul nostro destino. Don Fabrizio, rivolgendosi all’inviato del governo sabaudo Chevalley, afferma: «I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla». Da buon cittadino credo di essere perfetto e addito. Cosa faccio per migliorare? Per migliorarmi? Il grande malessere che oggi vivono i giovani è il senso d’impotenza rispetto ad un sistema che non intendono combattere per apatia e rimozione di senso etico, aspetti connessi tra di loro. Sono drogati di io non c’entro. «Si muore con una maschera sul volto; anche i giovani».
di Domenico Fortino