Durante la guerra anche le mani dei "buoni" si sporcano di sangue
Liberarsi dal "grande paradigma della disgiunzione" e smetterla di catalogare il mondo tramite la logica degli opposti. Così facendo, forse, si possono gettare le basi per un dialogo che possa condurre alla pace
«Ogni guerra è una sconfitta. Non si risolve nulla con la guerra. Niente. Tutto si guadagna con la pace, con il dialogo». Le parole di Papa Francesco pongono l'accento sull'importanza del dialogo nella risoluzione di ogni conflitto.
Ma siamo davvero disposti a dialogare con gli altri? Purtoppo molto spesso il dialogo non viene neppure preso in considerazione, soprattutto se "l'altro" è etichettato come "il male", "le tenebre", "l'oscurità". In questo modo non si fa altro che catalogare il mondo tramite la logica degli opposti secondo la quale ogni differenza si basa su una scala polarizzata di valori (come ad esempio bello/brutto, buono/cattivo, giusto/sbagliato).
Educare alla differenza e giungere alla elaborazione condivisa di un nuovo modello
di cultura significa smettere di costruire antinomie e liberarsi da quello che Morin definisce il “grande paradigma della disgiunzione", un paradigma che si basa proprio su una semplificazione riduttiva. Esso, infatti, sostiene antinomie radicali e stereotipi cognitivi.
Liberarsi dal paradigma della disgiunzione è il primo passo necessario per accogliere la differenza.
Bisogna assumere una dimensione critica, intesa come capacità di cogliere il cambiamento, la trasformazione. Non arroccarsi in credenze assolute, ma aprire le “gabbie mentali”.
Se io sono nel giusto, perchè dovrei parlare con chi è nel torto? A questa logica degli opposti deve necessariamente sostituirsi la logica delle relazioni, dell’incontro e del dialogo che consenta di cogliere il valore delle differenze.
Non c’è crescita che non preveda un cambiamento; e questo cambiamento si può ottenere mediante il riconoscimento dell’“altro da me” non come minaccia ma come fonte di arricchimento culturale, valoriale, esperienziale.
Per riuscire a vedere la diversità come un fattore positivo è necessario sviluppare condizioni di apertura, empatia, comprensione, condivisione; condizioni necessarie per gettare le basi per un cammino di incontro-confronto -riconoscimento reciproco.
È, pertanto, richiesto uno sforzo (che deve coinvolgere tutti gli attori in scena) per cogliere la dimensione di vantaggio insita nell’incontro con l’alterità, perchè anche quando questo incontro si fa “scontro” diviene comunque opportunità di crescita.
Basilare, per aprirsi alla diversità, è l’eliminazione delle “etichette”, evitando le semplificazioni le generalizzazioni e i raggruppamenti per elementi comuni negativi. Altri step da superare sono il pregiudizio e lo stigma: Quando si incontra qualcuno di “diverso” spesso ci si «difende con lo stereotipo con il pregiudizio, con il rifiuto, l'esclusione e lo stigma» (Allport). Allport ha definito il pregiudizio come «atteggiamento di rifiuto, odio, ostilità, verso una persona appartenente ad un gruppo, semplicemente in quanto appartenente a quel gruppo e che, pertanto, si presume in possesso di qualità biasimevoli generalmente attribuite al gruppo medesimo».
Stigma e pregiudizio sono dei veri e propri ostacoli all’incontro. Rifiutano la diversità riducendola a simbolo di una paura interiore che testimonia l'incapacità di misurarsi con la l'eterogeneità della realtà.
La realtà è che la nostra società è molto complessa e multiculturale, e i confini tra le nazioni sono sempre più labili. In questo nuovo scenario è impensabile continuare ad erigere muri e barriere costruite sull’idea di nazione, poiché è ormai impensabile parlare di gruppi nazionali con differenti interessi. Questa divisione potrebbe solo portare alla distruzione, senza che ci siano realmente vinti o vincitori.
La guerra non può più portare nessuna utilità materiale in quanto anche il vincitore non si
ritrova più ricco né trae alcun beneficio dalla vittoria (come accadeva invece nelle
guerre del passato) anzi, deve farsi carico del popolo vinto che a sua volta diviene «una
malattia per l’umanità intera» poiché «l’impoverimento di uno non fa la ricchezza di un
altro, ma il decadimento di tutti. Distruggere una nazione sarebbe come amputare una
mano nell’illusione che l’altra mano raddoppierebbe così la propria forza» (Montessori).
Pensare all’umanità come un unico corpo, un’unica nazione dove l’unico interesse
dev’essere il bene dell’umanità stessa. È questo il pensiero montessoriano che, in
modo dirompente, ci mostra l’inutilità della guerra, il suo essere ormai superata.
«L’uomo del domani (già presente, poiché è il bambino di oggi) guarda con altri occhi, che non scorgono confini. È un uomo che sa convivere con le altre culture senza esasperare
le differenze ed è capace di destrutturare i conflitti».
Purtroppo le innumerevoli guerre che affliggono ancora oggi il nostro pianeta ci mostrano come sia ancora urgente e necessario promuovere l’educazione alla pace. Questa può essere un processo lungo e complesso, (che non può sicuramente essere riassunto in poche righe) ma ci sono alcune semplici cose che si possono fare per promuovere la pace nella società e nella vita quotidiana: si può imparare a rispettare le differenze (questo include la diversità culturale, religiosa, sessuale, di genere e di background socio-economico); si può promuovere la comprensione reciproca, incoraggiando il dialogo; insegnare la non violenza, promuovendo la risoluzione pacifica dei conflitti. Promuovere la giustizia sociale e l'uguaglianza nella società. Si può perfino essere un modello positivo con le azioni compiute nel quotidiano per diffondere la pace, una pace che si fonda su armonia, stabilità e tranquillità.
La pace è un valore universale e un obiettivo ambizioso. Tutti dovremmo sentire il dovere morale di insegnarla, promuoverla, difenderla.
(foto di Luca Kleve Ruud)