Non siamo contabili della storia e nemmeno social manager della notizia: serve com-passione
L'appello del Papa ai giornalisti è un monito importante valido per ogni orizzonte o latitudine. Qual è la soglia morale di una notizia? Un cronista non può essere alessitimico, abulico o refrattario all'etica
«Il giornalista non è mai un contabile della storia, ma una persona che ha deciso di viverne i risvolti con partecipazione, con com-passione». Lo ha sottolineato Papa Francesco ricevendo in udienza una delegazione del Premio Biagio Agnes. «È il lavoro quotidiano del giornalista – ha aggiunto - chiamato a “consumare le suole delle scarpe” o a percorrere le strade digitali sempre in ascolto delle persone che incontra».
Quello del Papa è un insegnamento a nuovi e vecchi giornalisti, a chi si appresta a fare questo lavoro (che in molti, troppi ancora non riconoscono) e a chi, invece, s’ingegna – spesso maldestramente – a cercare lo scoop-like, o meglio, quella “notizia non notizia” che, però, va a colpire dritta la pìetas delle persone che scaricano così i loro pollici sui social…
Ovviamente non entro nella deontologia e nemmeno in quello che sia, o meno, giusto fare. Anche perché, chi vi scrive, ha ancora tantissimo strato di suole da consumare. Piuttosto, in quella mia imperterrita ricerca di risposte, mi pongo una domanda: qual è la soglia morale di una notizia? Informare è l’essenza del nostro mestiere. Ma in questo, quanto è importante un nome rispetto al fatto stesso? E può essere un nome più importante della stessa notizia?
Me lo chiedo perché spesso noi giornalisti incorriamo nell’errore, eticamente imperdonabile, di cavalcare la scia di tragedie umane e familiari con il solo e unico intento di creare interazioni. Di suscitare curiosità. Punto. Tralasciando tutta quella giusta e doverosa compassione che si dovrebbe avere per chi vive quei momenti drammatici.
Tante volte mi sono trovato a raccontare di incidenti stradali, spesso mortali, sulle nostre maledette strade. E tutte le volte ho rivolto il pensiero non tanto a chi si trovava ormai inerme su quel pezzo di asfalto ma a quanti quella notizia l’avrebbero ricevuta: una pugnalata nell’addome che ti toglie il respiro e che subito dopo ti scaraventa per sempre in una dimensione tutta nuova, totalmente diversa dalla vita che avevi vissuto fino all’attimo prima.
Il giornalista dev’essere distaccato e poco empatico. È una regola non scritta di questo lavoro. Ma il cronista non può essere nemmeno alessitimico, abulico o refrattario all'etica. Perché, come ricorda il Papa, non siamo i contabili della storia e la penna può diventare un fendente ancora più pericoloso di quanto già non lo sia, recidendo definitivamente il rapporto tra l'umanità e la stessa notizia.
Così come risulta inaccettabile – ma resta un parere personalissimo – l’uso distorto che spesso si fa della parola. A proposito, sempre richiamando le parole del Papa poi riprese anche dall’arcivescovo di Rossano-Cariati, Maurizio Aloise, nel messaggio dello scorso Natale, rimanere attualissimo l’appello a disarmare la parola. A raccontare i fatti per quello che sono e non per quello che si vorrebbe che fossero. A narrare la notizia sicuramente con colore ma senza renderla prepotente arma di dileggio e offesa.
Orrore, giustizialismo, sangue, dolore, violenza sono i link che fanno vendere un giornale. Ed è giusto soddisfare l’appetito del lettore. Però ci sono volte che l’onore dell’etica e della morale devono essere più forti della bramosia di visualizzazioni e popolarità. Perché alla fine, facendo parte del genere umano, abbiamo l’obbligo – tutti – di rispondere alla legge morale.