La carne di balena sì, la sardella no: un “complotto” europeo per far morire il sud?
Normative cervellotiche gravate dal caro prezzi delle materie prime colpiscono le piccole imprese pescherecce a favore delle grandi multinazionali del pescato. È un effetto tsunami le cui conseguenze sono già state pagate dai piccoli pescatori
Due anni e mezzo fa raccontavamo dell’ultima grande protesta che aveva interessato la marineria di Schiavonea, una delle più importanti del Mediterraneo. Le imprese pescherecce della grande darsena ionica lamentavano le anomalie e le incongruenze di un regolamento europeo sulla pesca che ha portato sul lastrico tanti armatori, ma anche tantissime famiglie che, per esempio, a Schiavonea vivono da centinaia d’anni di mare e dei profitti della pesca. Il problema era e rimane reale, nonostante qualche deroga che pure negli anni c’è stata.
Uno dei tanti problemi e delle regole cervellotiche, ad esempio, è l’omologazione delle reti di pesca: uguali tra il mare del nord e il Mediterraneo. E questo perché siamo tutti figli dell’Europa. Giusto. Ma i mari, i nostri mari, sono diversi da quelli baltici. La stazza e la tipologia del pescato è totalmente diversa. Ed è così che il calibro (la larghezza delle maglie) di una rete che va benissimo per i pescatori norvegesi e finlandesi diventa una condanna per le marinerie ioniche, adriatiche o tirreniche.
Si prenda ad emblema di tutto la pesca della neonata di sarda, della sardella. Ormai bandita a causa degli stringenti regolamenti europei. Eppure, parliamo di una delle produzioni di eccellenza della Calabria ionica. Parliamo di un prodotto che fa parte della tradizione dei popoli magnogreci così come lo stoccafisso è nel dna delle popolazioni scandinave. Uguale. Solo che lì la produzione del merluzzo disseccato, negli anni, non solo è stata tutelata ma è stata trasformata persino in produzione massiva. Pensate, ancora, che in alcune aree del nord Europa è ancora possibile l’assurda caccia alle balene. Tant’è che una delle tappe fisse di chi va in Norvegia o in Islanda è nelle locande che servono la carne di cetacei sotto ogni forma e sfaccettatura.
Tutto questo avviene mentre qui, nel sud d’Europa, in Calabria continuano a privarci delle nostre tradizioni e la pesca della sardella è diventata cosa da briganti, da criminali.
Non vogliamo pensare che sia un complotto. Però, mettendo in fila le tante “mannaie” che stanno sulla testa del mondo della pesca, dai regolamenti strampalati per finire al caro carburante, il dubbio che esista un disegno di un’Europa volutamente a due velocità c’è ed è concreto.
E infatti, basta andare in una qualsiasi pescheria, in un qualsiasi market del pesce, in un qualsiasi supermercato per accorgersi oggi di un dato emblematico: i banconi sono pieni di cozze cilene, merluzzo norvegese, polpi islandesi oppure di pesci di coltivazione. Ovviamente i motopescherecci locali sono fermi perché strozzati dall’aumento di prezzi e da guadagni minimi mentre a fare la voce grossa sono le multinazionali del mare.
I regolamenti dell’Ue, insomma, stanno favorendo la scomparsa dei pescatori costieri, dei pescherecci e di famiglie che da generazioni vivono di pesca e dall’altra parte la crescita le multinazionali dell’import-export di quel pesce.
È giusto, è sacrosanto tutelare la fauna del mare ma che si applichino regole differenziate, capillari e stringenti. Non si permetta al burocrate di Bruxelles di imporre una regola generalizzata efficace per alcune aree del continente ma del tutto inopportuna, ingiusta, iniqua e vessante per altre.
Insomma, senza un intervento chiaro e risolutivo la civile Europa porterà all’estinzione la pesca artigianale.