4 ore fa:Giornata mondiale della pesca, Martilotti chiede «maggior responsabilità agli amministratori regionali e locali»
3 ore fa:«Il referendum non sia usato per sollecitare campanilismi»
7 ore fa:Ecco la cartolina per i 75 anni di fondazione della parrocchia di Sant’Antonio di Corigliano
6 ore fa:Nuova Provincia della Sibaritide, per Dima (FdI) la discussione dev'essere «proficua, aperta e senza pregiudizi»
6 ore fa:Nuovi riconoscimenti internazionali per due docenti dell'Unical
4 ore fa:Eduscopio 2024 premia i Licei Classici del nord-est: il San Nilo primeggia su tutti
5 ore fa:La norma approvata dal Consiglio Regionale «sferra un colpo mortale alla Centrale del Mercure»
5 ore fa:Al Polo Liceale di Trebisacce ogni studente può far brillare il proprio talento: Inaugurato con successo il “Progetto L.O.M.”
3 ore fa:Trebisacce, le Piccole Operaie dei Sacri Cuori festeggiano i 130 anni dalla fondazione del proprio Ordine Religioso
7 ore fa:Benessere animale, Madeo di San Demetrio vince il Good Pig Award

Complessità della sofferenza e della ripresa

6 minuti di lettura

«La vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuanti dal camminare e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio – così, per me stessa senza riuscire a spiegarlo agli altri. Mi piacerebbe vivere abbastanza per poterlo fare, e se questo non mi sarà concesso, bene, allora qualcun altro lo farà al posto mio, continuerà la mia vita dov’essa è rimasta interrotta».

Così annotava sul suo Diario Etty Hillesum (Adelphi, Milano 2012, 675-676, tr. it.) la sera del 3 luglio del 1942. Un anno dopo, con quasi tutta la sua famiglia, venne deportata e uccisa a soli 29 anni ad Auschwitz, il buco nero su cui dobbiamo ancora (sempre e di nuovo) riflettere e in particolare con la poesia, la psicologia, la politica, la filosofia. Il 26 maggio del 1942 appuntava: «Vivere e soffrire intensamente e perdersi in questo pezzo di vita, giorno dopo giorno, pur restando sempre rivolti con lo spirito ai vasti orizzonti che giacciono dietro i giorni e gli anni».

Hillesum trovò la forza di guardare al di là della terribile situazione storica, cui anche molti italiani, ai quali tuttora vengono dedicate vie e statue, contribuirono. Lei riuscì a gettare lo sguardo oltre la sofferenza personale e degli altri, oltre il buco nero della banalità del male. Non è semplice. Se ogni cosa che riguarda l’individuo può universalmente appartenere a ciascuno, ebbene occorre rimanere insonni e riuscire ad oltrepassare il buio della notte. Con il proprio sguardo. Se la tendenza o la tentazione è quella di semplificare eccessivamente e di ridurre la complessità delle cose, ebbene commetteremmo l’errore di voler raccogliere il mare nella buca di un bimbo. Informarsi su un qualcosa, pur se importante, non significa conoscere. Noi possiamo essere persino stranieri a noi stessi, come può esserlo la nostra sofferenza e il modo come affrontarla o il nostro modo di amare. E se anche conoscessi, tuttavia senza la messa in pratica dell’amare (quello autentico), sarei come un “bronzo che risuona o come un cembalo che tintinna”. Le parole cariche di senso sono quelle testimoniate (radicalmente), mentre la loro comprensione, in senso fenomenologico, è interpersonale. Non è semplice dunque conoscere o amare o confrontarsi con la sofferenza e il male. Non è semplice testimoniare o ascoltare il silenzio, quello dell’alta montagna, che fa trattenere il respiro, o quello interiore, in mezzo al vociare del mondo. E, d’altra parte, chi accetterebbe di conoscere o essere conosciuto o altresì amato “teoricamente”, senza la testimonianza delle parole, dell’incontro, radicale e autentico, con il mio volto o con quello dell’altro? Il canto o il silenzio delle Sirene è fallace, seduttivo, ammaliante. Occorre un albero maestro, cui essere legati, per reggere alle lusinghe del vuoto che dispone delle sue estensioni e peso.

Nella vertigine del rapporto tra vissuto e accadimento, ecco così emergere la responsabilità più grande: l’amare e il rapporto con gli altri, la conoscenza di sé e degli altri, che tuttavia rimanda alla situazione-limite (K. Jaspers) della sofferenza che trasversalmente riguarda ciascuno. La sofferenza è la cifra del nostro amare: si soffre perché si ama. Eppure non siamo in nessun caso autorizzati ad agire contro noi stessi e gli altri perché sofferenti. O perché non capiamo quanto accade. È questa l’evenienza più stridente che viviamo nella nostra esistenza: «Perché? Perché è accaduto tutto questo?» oppure: «Ti amo, ma posso perderti» o ancora: «Amo la vita, ma posso io stesso perdermi».

Confrontarsi con il senso di colpa o con la frustrazione della perdita, anche grave, richiede uno sforzo notevole, continuo incessante, come quello della Hillesum.

Verrà la morte e avrà i nostri occhi, è vero: dovremmo restituirli, come tutto il resto, essa tuttavia non avrà il nostro sguardo e la nostra responsabilità, ciò che abbiamo cercato di realizzare nella nostra vita, quanto siamo stati in grado di amare e come lo abbiamo posto in essere. Il senso di insieme è una conquista, è un cammino di consapevolezza, lento, complesso, difficile, ma possibile. Per Dante è, per non essere bruti, l’osare con umiltà.

Nel mio lavoro, ho conosciuto e conosco persone che vivono e fanno vivere sofferenze estreme, persone che non hanno compreso o hanno compreso tardi la proporzione delle cose al confronto con il male che loro stessi hanno generato o subito da altri. Non essere consapevoli del male che si crea, ovunque e comunque, è una delle responsabilità più laceranti, di cui facciamo fatica a cogliere la portata, pronti a giustificare ogni nostro agire.

La sofferenza incatena in ogni caso al qui ed ora, alle macerie dell’esistenza, all’isolamento del non essere creduto, capito, ascoltato – questo tra l’altro era l’incubo che assillava Primo Levi – eppure occorre oltrepassare le macerie e recarsi sulle rovine, come vengono definite dalla Zambrano, e raccogliere il senso della storia, propria e altrui, e l’irriducibilità di noi stessi e dell’altro.

Anni fa ero con la mia famiglia ad Agrigento, lungo la bellissima Valle dei Templi. In quella atmosfera assolata, mi chiesi cosa avrebbe pensato un greco redivivo di quel chiosco di bevande, molto utile nel caldo agrigentino, o di quella mostra artistica presente tra i templi, vissuti probabilmente come invasori dei luoghi sacri presso cui egli si recava, magari con i propri cari, per celebrare i riti alle proprie divinità. Ebbene, mentre avrebbe buttato via i frammenti di anfora, perché non più utili, avrebbe cercato in tutti i modi di ricostruire la colonna spezzata del tempio nel modo come egli ricordava. Per lui si stava creando da parte nostra una profanazione (nella proposta e nel cambiamento possibile) e da parte sua il tentativo di ricostruire esattamente il tutto com’era.

La ripresa non è la ricostruzione di ciò che è esistito in precedenza ad un particolare evento, situazione, lutto o accadimento: non sarà possibile. La storia non è soltanto creata dal dato fisico, spaziale e temporale, che pur limita e non prevede, in molti casi, reversibilità. Ciò che ci appare ora ci giunge come violazione e violenza, macerie e disperazione, rabbia e delusione. È un altro mondo. Mentre il nostro è scomparso e con esso noi stessi, sospesi al di qua della storia. Occorre così rinvenire una nuova sacralità per l’esistenza. E ciò non avviene né immediatamente, né nel rimanere sospesi sulle proprie macerie, né nel vissuto di isolamento, di abbandono o di negazione di quanto accaduto. La ripresa è il faticoso cammino tra le rovine dell’esistenza per una nuova sacralità in un nuovo mondo da ricostruire. Con noi stessi e gli altri. Ritrovati. Nonostante tutto.

Così viviamo, per R. M. Rilke, autore molto amato da Hillesum, in un continuo dire addio. Ma anche in un continuo ritrovarsi, respiro dopo la pioggia più intensa, nella consapevolezza. Non da soli, dunque. Per Zambrano (in L’uomo e il divino, Ed. Lavoro, Roma 2001, 224-233): «ogni rovina emana qualcosa di divino», ma è ciò che sopravvive alla storia, «non c’è rovina senza vita vegetale; senza edera, muschio o erba che spunta tra le fessure della pietra e si confonde con la lucertola, come un delirio della vita che nasce dalla morte». Esiste un qualcosa che resta e che non può passare, sopravvive dopo la distruzione, ogni distruzione; ecco allora quel frammento, l’amuleto d’avorio ricordato da Montale, che diviene motivo per continuare ad esistere, unione con il passato, con gli altri, se si alza lo sguardo da terra, dal contingente. Esso non potrà, certo, avere la stessa funzione di prima, ma troverà spazio nel mondo interiore del sacro, dove il passato sa unirsi al presente e al futuro che ci viene incontro (G. Marcel). Se una voce amica, testimoniata, appare dentro e fuori di noi. Nella libertà.

Tutto ciò che compiamo può avere la fragilità e l’orizzonte del sacro o la lacerazione non giustificabile dell’offesa e del non essere capiti. Non esistono piccoli gesti nei rapporti con gli altri. Nella sofferenza, come nell’amare, nel conoscere, come nel conoscersi. Essi sono sempre e in ogni caso importanti. Primo Levi giudicherà un Kapo dal gesto di pulirsi su di lui la mano sporcatasi nello spostare del materiale, mentre avrà sollievo da Lorenzo Perrone, il muratore piemontese semianalfabeta che gli offrirà in silenzio testimonianza. Vi è qualcosa di unico, eccezionale in noi e negli altri, nella nostra ed altrui storia ed incancellabile esistenza. Ad ognuno, la responsabilità del conoscere, dell’amare, dell’agire. Per R. M. Rilke: «Vive ogni cosa/ una volta, una sola. Una soltanto/ e non più. Pure noi, solo una volta:/ una, e non più. Ma questo essere stati/ una volta, e sia pure una soltanto,/ vivi, nel mondo, è cosa incancellabile» (tr. it. di G. Regini).  


Il Corsivo è curato dalla reggenza dell'Eco dello Jonio con la preziosa collaborazione della prof.ssa Alessandra Mazzei che ogni settimana offre agli utenti la lettura in forma esclusiva di contributi autentici, attuali e originali firmati da personalità del mondo della cultura, della politica e della società civile di fama nazionale e internazionale

Antonio De Luca
Autore: Antonio De Luca

Psicologo psicoterapeuta, ha lavorato per molti anni nell’ambito delle tossicomanie e delle problematiche giovanili gravi. È stato professore a contratto di Psicologia Clinica, Psicologia Dinamica e Psicopatologia del Comportamento presso l’Università della Calabria, dove insegna tuttora come professore a contratto. È stato docente presso il Master in “Medicina Integrata” dell’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro. Insegna Psicopatologia Fenomenologica presso la Scuola di Specializzazione A.S.Co.C. di Lamezia. Ha tenuto e tiene docenze, collaborazioni, seminari presso Scuole di Specializzazione, tra cui la SIPSI di Roma e la SGAI di Milano, Università (anche straniere), Enti di Ricerca, Associazioni e l’Accademia di Belle Arti di Venezia. È psicologo presso il Ministero della Giustizia. Coordina un Laboratorio nazionale formato da Associazioni e professionisti che si occupano di salute mentale. È autore di numerose pubblicazioni italiane e internazionali.