«Le fondazioni di comunità: potenti infrastrutture sociali per lo sviluppo territoriale»
Nuove forme di governance, responsabilità diffusa e visione strategica per il rilancio dei territori di periferia
Siamo in un tempo in cui il rilancio dei territori di periferia sembra non solo riproporsi come emergenza sempre più accentuata per evitarne lo spopolamento definitivo, ma anche -ed è una novità!- incrociare opportunità inedite e possibilità concrete.
Queste, se si stavano già prefigurando negli ultimi anni come alternativa allo stress determinato dalla congestione dei grandi centri urbani -quindi, per alcuni aspetti, risposta alla legittima ricerca di una migliore qualità della vita-, oggi sembra aver trovato un nuovo affaccio con la diffusione delle nuove modalità lavorative resesi necessarie dalla pandemia e al contempo dimostratesi sistematicamente possibili, quando non (in buona parte) vantaggiose.
Occasione da non perdere, ma che richiede anche nuova attenzione nell’individuare quelle forme di sviluppo economico-sociale indispensabili, urgenti e sostenibili.
I territori richiedono nuove forme di governance per procedere verso una progettualità di lunga veduta, ma allo stesso tempo capace di rispondere in tempi brevi ai problemi resi ancora più impellenti dalla crisi.
Leggere e interpretare la complessità, evitando banalizzanti semplificazioni di quegli ormai tanto spesso citati marcatori territoriali; costruire sistemi di progettazione coerenti e flessibili che possano al proprio interno includere, programmare, riqualificare senza azioni dispersive, frammentarie o settoriali; insomma lavorare per lo sviluppo attraverso quell’imprescindibile approccio intersettoriale e olistico, orientando, accompagnando, sostenendo il cambiamento verso una rigenerazione sociale complessiva non è cosa affatto scontata. Neanche breve. Ma credo non vi siano dubbi che sia la direzione.
E -tenendomi, per costume, lontana da ogni idea di sterile dialettica partitica locale-, come principio generale penso che le istituzioni politico-amministrative molto difficilmente oggi, da sole, possano avere al loro interno le risorse (e non intendo solo economiche!) per poter garantire in forme adeguate queste risposte.
Tra l’altro, la ciclica alternanza delle forze al governo e la stessa compartimentazione di settori e deleghe, quasi mai sufficientemente supportata da adeguati strumenti di comunicazione e collaborazione interna, contribuiscono non poco a delineare il rischio forte di azioni sfilacciate che non sempre si inseriscono in una progettazione d’insieme. Non sempre, inoltre, vi è unanime consapevolezza di una visione strategica. E, principalmente, non sempre (MAI!) i territori si possono permettere di ripartire ogni volta da capo!
Al contempo, si sta diffondendo, anche alle nostre latitudini, il concetto di responsabilità diffusa, che da sensibilità e consapevolezza, sta diventando, a mio avviso, necessità e richiede, però, di essere tradotta in forme operative e strutturate, se si vuole che diventi davvero opportunità nuova.
Penso si possa dire che ogni territorio (certamente il nostro) abbia al proprio interno, accanto alla macchina amministrativa centrale, una miriade di soggetti, che, in varie forme -istituzionali, associative, se non anche individuali- hanno competenze e settori di azione che, se messi a dialogo prima, quindi a sistema, potrebbero rappresentare davvero la più grande risorsa e la chiave per cercare di dare le risposte indispensabili.
La grande scommessa diventa, come sempre, la capacità di fare rete, superando steccati e appartenenze; ma, accanto a ciò, si impone il bisogno di darsi un metodo e un’organizzazione, perché non vi è dubbio che il rischio sia di trasformare la potenzialità in strutture pachidermiche, in assenza di percorsi precisamente tracciati e, principalmente, di una cabina di regia autorevole e riconosciuta.
Tornando alle potenzialità del nostro oggi, la comunicazione digitale ci sta offrendo anche l’opportunità di superare il nostro limite geografico-infrastrutturale di territorio isolato di periferia. Ciò implica, tra le altre cose, la possibilità di costruire una rete internazionale di lavoro in grado di offrire forse l’unica (per ora) risposta possibile al ritorno (pur virtuale) dei nostri tanti cervelli in fuga e, al contempo, di immettere le problematiche locali in un laboratorio progettuale di respiro ben più ampio.
Una possibile risposta operativa.
Partite all’inizio del ‘900 in America (Cleveland), in Ohio, poi diffusesi in Europa, prima (anni ’70) nei Paesi del Nord (Inghilterra, Germania), poi dell’Est e del Sud, infine, dagli anni ’90, anche in Italia, le Fondazioni di Comunità stanno diventando una realtà da studiare e valutare con grande attenzione.
Nate in origine su impulso degli istituti bancari, poi supportate da altri strumenti (uno per tutti Fondazione CON IL SUD), laddove si sono radicate esse stanno rappresentando importanti acceleratori di sviluppo, catalizzatori di energie, professionalità, idee e risorse diffuse; promotori di sharing economy virtuosa; infrastrutture sociali potenti e capaci non solo, come si pensava in origine, di raccogliere fondi, ma anche di costruire, affiancando le amministrazioni, policies durevoli, partorite dal basso e perciò consapevoli, vicine ai bisogni dei territori in cui nascono e, in quanto tali, percepite come affidabili ed eque.
Negli ultimi quindici anni, circa, anche il Mezzogiorno sta vedendo un fiorire di queste organizzazioni che, proprio per il loro essere lights, flessibili e plasmate sulle realtà che le partoriscono, possono assumere forme strutturali e gestionali le più varie che meritano di essere analizzate all’interno di una strategia di sviluppo finalizzata non alla speculazione economica di pochi, ma ad una complessiva rigenerazione sociale inclusiva che, da un miglioramento della qualità di vita dei residenti -innestata anche su un rilancio economico generale- possa poi affacciarsi, significativamente, a forme di turismo responsabile e consapevole.