Ecco una recensione del libro "Cicciarèlle. Come un romanzo" del professore Giuseppe Trebisacce
Leonardo R. Alario: «Nel leggere una sì coinvolgente storia di ordinaria fatica e di fervida speranza, sono tante le possibilità, per gli anziani, di riandare con la memoria a ciò che è stato, e, per i giovani, di scoprire un mondo, a cui appartengono»
COSENZA - Pubblichiamo di seguito la recensione scritta da Leonardo R. Alario e riguardante il libro "Cicciarèlle. Come un romanzo" scritto dal professore Giuseppe Trebisacce
Cicciarelle. Un tentativo di lettura
In un tempo in cui i concetti sono dislavati dal logorroico e insignificante dire, segnato da orpelli linguistici, è confortante lèggere una storia, in cui la parola asciutta, essenziale e pregnante ci dà la giusta misura del limpido dettato, sicché ricorre alla mente la prosa latina, mentre la profonda e misurata tenerezza per i personaggi e le loro vicende, per il paese, luogo del cuore e della memoria mi portano il pensiero verso la poesia di Virgilio. Storia, la cui unità d’ispirazione è data da un canto d’amore scritta per coro e voce sola. Canto d’amore per Cicciarelle, la madre, e per un intero universo, di cui sopravvivono oggi ancora tanti riverberi.
Quella di Giuseppe Trebisacce è la storia corale, infatti, di tante storie individuali, intrecciantisi nella condivisa diuturna realtà di miseria e di fatica, e nella comune tensione verso lo star meglio tra lavoro, sacrificî, miseria, lotta quotidiana per superare gli agguati della vita, dolorosa emigrazione, desiderio del ritorno, affidamento fiducioso nella Provvidenza, sempre viva nel cuore dei semplici, anche se qua e là sembra affiorare, talvolta, la rassegnazione, lenita, tuttavia, dalla speranza, dalla profonda fede nel Signore e dalla fiducia nel lavoro delle proprie mani. Mi affiora alla mente un canto di tradizione orale di diffusione calabro-sicula: «Signuri, chi di gloria si’ patruni,/ Signuri, chi lu cielu cumannati,/ Signuri, chi a lu poviru fa’ dunu,/ di la ricchizzi e di la puvirtati, Signuri, chi lu cori sa’ guardari, dammi tu forza ppi’ mu faticari!». L’anima semplice non chiede aiuti straordinarî, le basta la forza per lavorare anche duramente, assicurando, in tal modo, il pane alla famiglia e vivere una vita dignitosa.
La storia di Cicciarelle e del suo complesso universo si rivela un crogiuolo, da lèggere con metodo necessariamente interdisciplinare, poiché in essa si individuano la storia della comunità, che s’incontra con la macrostoria, subendone pesantemente l’influenza, la weltanschauung (ossia la visione del mondo e della vita, che regola il pensare, il dire e il fare dei singoli e della comunità), l’economia di sopravvivenza, i rapporti sociali, il dramma dell’emigrazione e della guerra. L’autore si muove nel mondo di Cicciarelle, che è anche il suo, con andamento lieve, con sguardo a volte commosso, presentando vicende, personaggi e paesaggi, che ci avvincono per quel dettato pulito, punteggiato da un uso temperato del dialetto, che ci interessano per quel riverberare dentro di noi di ricordi e di saperi, che ci sembrano utili per dire alle giovani generazioni quale sia stata la condizione di vita dei loro nonni e quali strategie abbiano attivato per difendersi da difficoltà improvvise dovute alla miseria, alle malattie, all’inclemenza del tempo, da cui possano essi trarre insegnamento.
Di Cicciarelle colpisce l’efficacia dell’incipit: «Venne al mondo una domenica di agosto in un pomeriggio particolarmente caldo». Ed è sùbito citazione della festa patronale con la processione del santo patrono, la tradizione della posata, della fermata della statua del santo là dove è allestito un tavolo con “qualcosa da mangiare” offerto al parroco e ai fedeli in processione in onore del santo secondo l’antico rito della condivisione del cibo in tempo di festa, per sciogliere il voto contratto spesso per ottenere la guarigione di un familiare, del cui peso si offre al santo l’equivalente di grano.
A lèggere il bel libro di Trebisacce in ottica antropologica, ci si trova dinanzi a un universo culturale, che può essere sbrigativamente definito semplice. Non lo è affatto! Una cultura, che si è stratificata nel tempo di antichi retaggi, di sincretismo religioso, di mentalità magica, di resistenza alle tristi condizioni di vita, di partenze e di ritorni, di radicamento nel proprio orizzonte e di contatto con culture altre, di cui cogliere ciò, che è ritenuto funzionale ai propri bisogni esistenziali, fra affidamento ai santi protettori e scelta di contare sul lavoro delle proprie mani nel tentativo di star meglio, non può definirsi semplice. Il senso pratico da una parte, che fa puntare al fare, e l’affidamento a Dio e ai santi, dall’altra, contrattando il loro favore con voti e offerte nel giorno della loro festa, quando tutta la comunità dismette la diuturna fatica e si specchia nello sguardo, nel sorriso, nel saluto dell’altro, nella danza e nel canto, nell’atmosfera di gioia, in cui trovano il conforto di sentirsi comunità coesa, segnata dallo stesso destino, dallo stesso desiderio di riscatto economico e di libertà, dagli stessi riti, dalla stessa mai dismessa speranza, concorrono a creare un universo complesso ferito dal bisogno, e perciò, né sereno, né intatto, carico, spesso, di tensioni, di aggressività, di competizione, di sofferenze taciute, di dignità devastata, ma anche di solidarietà, di amore verso l’altro, di desiderio di giustizia.
Nel leggere una sì coinvolgente storia di ordinaria fatica e di fervida speranza, sono tante le possibilità, per gli anziani, di riandare con la memoria a ciò che è stato, e, per i giovani, di scoprire un mondo, a cui appartengono, e di cui non sono del tutto affrancati, perché la cultura avita, cambia nel suo aspetto esteriore, tanto da non essere riconosciuta, ma è sempre quella, che hanno ereditato e praticato i nonni e, poi, i genitori, e, ora, essi stessi, contaminandola con nuovi saperi, arricchendola man mano ed elaborando via via una nuova cultura, che comprenda, ciò che è stato e ciò che è, e che sia rispondente ai nuovi e più complessi bisogni.
Come non sottolineare l’uso temperato del dialetto, che fa Trebisacce, non per allinearsi a certa moda corrente, ma perché ben sa che la cultura di un determinato luogo si esprime tutta intera con la lingua addotata dei padri, direbbe Ignazio Buttitta. Il processo di inculturazione avviene per mezzo del dialetto. Così pure i dialoghi. I canti di diversa tipologia, le preghiere alla Madre di Dio, le invocazioni ai santi sono elevati in dialetto. Come non sottolineare certi riti religiosi, civili e culturali vissuti dalla mia generazione, e certi eventi narrati dai nostri genitori o nonni, di cui serbiamo viva la memoria? Le comari sedute sui gradini della soglia di casa, che, sferruzzando, raccontano fiabe, citano proverbi, realizzano, nel passarsi le notizie del paese, un vero e proprio giornale parlato. Penso alle figure del barbiere, dell’ostetrica, del medico, del farmacista, dell’ambulante, che scende dai paesi vicini, di Vicinze Nateghe e di Carmèghe Barone, una sorta di Jugale del paese. E poi, i piccoli particolari, che ci rivelano i rapporti sociali, il senso dell’onore e del rispetto, la piccola economia di paese, il ruolo femminile nelle famiglie, i colombi per la puerpera, lo scambio rituale dei doni a Natale e a Pasqua, il baciamano agli anziani, la trasmissione dei poteri magici, il lutto della Settimana Santa, quando neppure i campanacci dei buoi devono suonare, le previsioni del tempo, osservando il cielo, il dono della lingua del maiale al potente in segno di rispetto, le piccole storie individuali, che s’intersecano nel viver comune, creando la storia della comunità.
La storia stessa di Cicciarelle, s’intreccia con la storia degli altri e con la grande storia, di cui tutti subiscono l’influenza, diciamo pure le ferite. E, ancora, la condivisione rituale del cibo, il dono di una piccola parte di carne del maiale, ucciso con l’aiuto di parenti, agli amici, i riti nuziali preceduti dall’ambasciata e dai patti matrimoniali, la mentalità magica, che regola certe scelte (i vestiti a brandelli del morto, l’interdetto della misurazione delle scarpe quando si è a letto), la medicina popolare, i giuochi infantili e giovanili, gli scherzi pericolosi, le misere case, in cui, in poco spazio, convivevano uomini e animali, il viaggio delle donne alla fontana, luogo d’incontri e di sguardi fra innamorati, per attingere acqua, recando in capo, sorretto dal cercine, il pesante recipiente, l’aridità del cuore della signora ricca (la roba si butta, ma non si dona), il rapporto fra chi ha e chi non ha, e la conseguente sottomissione dei deboli, la rigida disciplina a scuola e in casa. Vita quotidiana di fatica, di sacrifici e di dignità, alleviata, la sera, dal bicchiere di vino nella cantina e dal ritrovarsi attorno al fuoco per dialogare, scambiarsi notizie e saperi, prima di andare a coricarsi sul letto fatto di un saccone riempito di foglie secche di granoturco, che crepitavano al minimo movimento.
Nessuna cultura, per quanto marginale possa essere, è esente dell’influenza della grande storia nazionale. Pacifiche comunità, che a stento guadagnano il pane col lavoro delle braccia, per via di guerre, di cui non capiscono il senso e il fine, si vedono private da valide braccia di giovani chiamati a scannare e a farsi scannare. Per evitare, così, ai figli maschi, il destino crudele della chiamata alle armi col pericolo di non tornare più, i genitori ricorrevano all’ingenua scelta di dichiararne la nascita due, tre mesi, addirittura un anno dopo. E, tuttavia, andavano, e alla notizia della loro morte, le madri si abbandonavano al pianto disperato, invocando il nome dei figli.
Cicciarelle si rivela un grande quadro d’insieme, in cui tutta la vita della comunità è rappresentata con le sue varie attività, coi suoi personaggi, col suo paesaggio urbano e campestre, un po’ come in certi dipinti del fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio, in cui vibra tutta la vita ordinaria della comunità, dai lavori dei campi a quelli degli artigiani, dalle scene di banchetti ai diversi giuochi infantili e giovanili, dai riti di nozze alla drammatica ascesa al Calvario di Gesù.
Cicciarelle, paradigma di tante donne dei nostri paesi, e vera unità d’ispirazione di così densa storia, non si arrende di fronte alle difficoltà, s’impegna, anzi, per superarle, per aprire spiragli di luce nel futuro della famiglia, per creare rapporti di mutuo soccorso nel paese, per spalancare le porte del cuore alla speranza, ancor più alla certezza di un futuro migliore, sicura che i figli, anche quello che porta in grembo, segneranno, come, infatti, sarà, da protagonisti i solchi di una storia, che sta per cominciare.
Cuore di donna forte, quello di Cicciarelle, che si rivela tutto intero in quell’explicit! Un explicit da antologia rischiarato dalla certezza di un futuro radioso dei figli affidati alla Provvidenza. Un explicit, che si fa tenero canto di serenità, di fiducia e di speranza, sgorgato dal cuore semplice di Cicciarelle al refilo lieve del vento, giunto dal mare, da cui sorge il sole, l’astro che riscalda, che illumina, che rigenera, che dà la forza, dopo il terrore delle tenebre, di ricominciare un altro giorno di fatica, di dolore, di gioia, di speranza, di fidanza della Provvidenza: «In quel luogo solitario e assolato in cui tutto appariva fisso e immobile da millenni, Cicciarelle rivolse, fiduciosa, il suo pensiero al futuro dei figli e, come una carezza tenera pregna di speranza, su di loro posò il suo amorevole sguardo affidandoli alla volontà misericordiosa di Dio. Un leggero alito di vento, giunto improvvisamente da mare come un soffio di speranza, accarezzò la sua pelle distogliendola dai suoi pensieri e lasciando apparire sul viso, ancora rigato dalle lacrime, un sorriso che sgorgava dal cuore, come la certezza di un indubitabile che accompagna chi si ama. Così Cicciarelle, con la pienezza del suo amore di madre, si congedò dai suoi pensieri, certa che i figli, anche quello che portava in grembo, avrebbero segnato da protagonisti i solchi di una storia che stava per cominciare».