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Un discorso per forza scorciato

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       Orazio servì come pochi quella Poesia che soltanto se vuole si serve di questo o quel mortale per venire al mondo. Oltre che poeta, è egli l’arcobaleno più elegante che unì Grecia a Roma, e la più certa officina ove s’apprenda la parola: a sceglierla, a disporla.

       Orazio inventa di volta in volta il proprio lettore, e arriva a desiderare che esso gli somigli. Guaio è che spesso fu esaudito, sì che per secoli, sciami e sciami di gaudenti en pantoufles si son riconosciuti nell’Orazio sornionamente saggio, volto vulgato dell’Orazio battuto dai venti, umido di tempeste...

       Quando non gela nel neoclassico; quando non scioglie l’affanno in sentenze di volta in volta pacificatorie, Orazio erompe in momenti superbi, pure catene d’oro levate nell’etere che vibra, incastri inusitati e belli di parole, maximum di energia – disse uno snob che se ne intendeva – ottenuto per un minimum di segni, ratta eleganza che stordisce.

         Due delle Odi qui tradotte reclamano un cenno esplicativo. Chi si salvava da un naufragio offriva un’immagine dipinta delle proprie vesti zuppe d’acqua al tempio del dio del mare. Il naufragio cui Orazio scampò era ovviamente metaforico - e ciò vale per l’Ode I, 5. Nella III, 23, invece, vezzeggia egli l’affettuosa devozione della contadinella Fìdile alle divinità domestiche. Neglette le Satire, volgerò da un’Epistola con la quale il poeta raccomanda il proprio amico Settimio alla benevolente attenzione di Tiberio Claudio Nerone, chiamato qui soltanto Claudio, e che un giorno succederà all’Augusto col nome di Tiberio. Chiuderò poi con un Epodo assai monello.

Odi, I, 5 Quale tenero giovane ti stringe, / tra rose, tra fragranze, nella grotta / che è solo vostra, Pirra? / Per chi con grazia annodi // la bionda chioma? Ma bestemmierà / l’inganno, l’incostanza degli dei, / e insulterà stupito / le buie onde battute // chi fiducioso gode la tua gloria, / chi ti disse fedele, degna sempre / d’amore, e non curò / la fallacia dei venti. // Miseri quelli a cui risplendi ignota! / Io grato offersi al tempio del potente / dio del mare le vesti / umide di naufragio.

Odi, I, 11 Non chiederti, Leucònoe, quando tocchi / a me, a te, morire, e non tentare / babilonesi oroscopi. Sapere / è colpa. Meglio, molto meglio attendere / ciò che verrà. Che Giove abbia concesso / inverni e inverni ancora, o che sia l’ultimo / questo che stanca il Tirreno su scogli / porosi, abbi saggezza, filtra vini, / e recidi speranze interminate / a questa breve corsa. Ecco, parliamo, / e il tempo, velenoso, non è più. / Cogli il giorno. Non credere al domani.

Odi, I, 23 Fuggi ancora da me / come un cerbiatto che tra monti ignoti / cerca la madre trepida, e ha paura / degli alberi, del vento, e quando vibra / di lievi foglie primavera, quando / sommuovono le verdi / lucertoline un rovo, ecco, trema / in cuore, trema nei ginocchi. Io / però non sono una tigre feroce, / non un leone d’Africa. Non voglio / farti del male, Cloe. Lascia la madre, / segui serena l’uomo.

Odi, III, 23 Fìdile, piccola figlia dei campi, / con la luna che nasce levi al cielo / le tue mani supine, plachi i Lari / con incenso, primizie, una famelica  / scrofa, e le viti rigogliose mai / offenderà scirocco, mai la sterile / ruggine le tue messi, o i dolci cuccioli / il tempo greve che i frutti maturano. / Destinata, la vittima ora bruca / sull’Algido nevoso, tra le querce / e i lecci, o forse la nutre erba albana. / La scure dei pontefici cadrà / sopra il suo collo. Fìdile, i tuoi piccoli / dèi non pretenderanno vasta strage / di pecore da te, che li incoroni / di rosmarino, di tenero mirto. / Una mano che pura tocchi l’ara / gli è più grata di vittime sontuose. / Trovano pace i Penati col farro, / con i chicchi, che balzano, del sale.

Odi, IV, 10 Crudele ancora, ancora forte dei doni di Venere, / quando un cenno di barba verrà a sorprenderti la boria, / quando la chioma che ora ti danza sugli omeri cadrà, / quando il fulgore delle carni, più vivo dei petali rossi d’una rosa, / si smorzerà, Ligurino, mutandoti in un’ispida faccia / che nuova allo specchio incontrare dovrai ogni volta, / dirai: “Il senno mio di oggi perché non lo ebbi ragazzo? / Perché le mie gote di allora non tornano oggi?”

Epistole, I, 9 Claudio, Settimio è certo il solo che / intenda quanto tu mi stimi. E infatti, / se mi prega, se supplice mi sprona / che a te lo lodi e degno lo dichiari / di quella casa di Nerone che / sceglie ciò che va scelto; se gli pare / che ciò sia pegno d’amicizia, oh, allora / meglio di me conosce il mio potere! / Gli ho detto no. Ho argomentato bene. / Ho poi temuto che mi sospettasse / di fingermi più piccolo del vero / per mio vantaggio, e ad evitar più grande / squallida colpa, ecco, mi piego al rischio / di apparire sfacciato. Fu amicizia / a volere così. Non ti dispiace, / lo so bene. Accoglimi Settimio / nella schiera dei tuoi. È un uomo probo.

Epodi, 8 Ti lagni pure che mi trovi fiacco, / spudorata vecchiaccia? Dall’età / hai sulla fronte impresso un folto smacco / di rughe, hai neri i denti, e poi chissà // perché il mio cazzo dorme… Non ti basta? / Il culo tra due stente chiappe piatte / si spalanca solenne, e se ti tasta / il petto questa mano, flosce e sfatte // poppe ritrova come di cavalla / sopra una pancia tutta tremolante. / Il polpaccio è più grosso d’una palla; / la coscia, secca: di virtù ne hai tante! // Crepa dunque: alle esequie tue saranno / i ritratti dei consoli condotti, / ma le spose romane non verranno / a esibire gioielli pacchianotti. // Che vedo? testi stoici nel tuo letto! / Vuoi educare i cazzi? Forse che / un cazzo cólto fa provar diletto / maggiore? fotte forse anche per tre? // Ma se il mio cazzo dorme, brutta sciocca, / me lo devi svegliare con la bocca!

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.