Uno strano campione, un’amara vicenda
Il destino di Benoni Beheyt, contestato campione del Mondo e innocente omicida
Nessuno mai potrà negare che agone e agonia siano voci sorelle, nipoti entrambe delle loro ave greche ἀγών e ἀγωνία; né negare potrà che ἀγωνία restringa il campo semantico di ἀγών alle accezioni di lotta, gara e ansia giungendo, nel Vangelo di Luca (XXII), a voler dire angoscia di morte. Per innegabile che sia, però, rigetto tutto questo come insoffribilmente e obliquamente consolatorio. Contemplare un atleta lottare col Fato e con la Morte, e contemplarlo soccombere ad essi, mi dispera quanto mi dispera l’agonia d’un placido pantofolaio. Cialtrone è chi se ne racconsolasse inerpicandosi su pei sentieri dell’etimologia per concludere, arguto e contento, che giacché lotta nell’atto sportivo, è naturale che l’atleta lotti e soccomba anche al di fuori della gara. A chi poi sentenziasse che tutti nascemmo a patir cose atroci, auguro che il vomito delle sue parole gli resti in gola e lo strozzi pian piano. Il sole ignora le piaghe che infiamma. Qui voglio piaghe aperte nel petto mio e in quello di chi legge. Così soltanto sarà pace. Che Morte poi ci attenda tutti, è mistero grandioso, da meditare in casta altezza e da vivere in calorosa fratellanza. Servirsene come analgesico è, di nuovo, sputo di bocche pavide e fors’anche malvagie.
Pareva quasi che tra il finire degli anni Cinquanta e la metà del decennio seguente, due corridori si fossero spartiti, con un tacito patto, i più alti reami delle corse ciclistiche: Jacques Anquetil e Rik Van Looy. Il primo, algido, metallico, elegantissimo, trionfava nelle corse a tappe nonché nel massacrante Grand Prix des Nations, informale Campionato del Mondo a cronometro; il secondo faceva invece sue quante più gli riuscisse delle corse d’un giorno. Ad altri e grandi corridori riusciva di uccellare traguardi ambiti e prestigiosi. Ma i campioni da battere restavano i due che nominammo.
11 Agosto del 1963. Si corre il Mondiale su strada. Ronse, nel Belgio, la sede dell’evento. Van Looy, che è belga e che il Mondiale ha vinto già due volte, è certo, con tutta la sua gente, di conquistare il terzo alloro. Chi non sa di Ciclismo troverà arduo intendere come e quanto esso sia pure sport di squadra; che una corsa s’imposti secondo strategie; che in seno a una compagine vi siano ruoli stabiliti. Se tutto salta, è per volere del Destino o per la bravura inopinata d’un corridore ignoto. Van Looy, stratega eccelso, era solito disporre i suoi in testa al gruppo: perché smorzassero ogni fuga, perché portassero lui capitano a prodursi in quelle sue volate onnipossenti, quasi ogni volta foriere di vittoria. Un giovane che ha fatto cose egregie tra i dilettanti, e che tra i professionisti ha conquistato la Gand-Wevelgem, corre quel giorno al fianco di Van Looy. Benoni Beheyt è il suo nome. Come gli altri componenti del gruppo, deve aiutare il capitano a giungere sereno in vista del traguardo. Al resto penserà lui, l’imperatore di Herentals, Rik II, appellato così per distinguerlo da Rik I, e cioè Rik Van Steenbergen. Piatto, o appena ondulato, è il percorso. I brevi tratti di pavé scremano il gruppo, che giunge in vista del traguardo forte di 28 unità. Tutto accade in un attimo, e le immagini, mal riprese da una telecamera fissa, mostrano un Beheyt e un Van Looy che pasticciano, si spintonano, tagliano il traguardo: primo il gregario, secondo il capitano. Se ne dirà di tutto: di una combine cesaricida all’interno della nazionale belga; di un prevalere casuale di Beheyt ai danni di Van Looy; di un personale tradimento dell’oscuro gregario. Certo è che Van Looy non digerì la cosa. Beheyt, con la maglia iridata, vincerà un Giro del Belgio e una tappa al Tour de France, e giungerà secondo al Fiandre e alla Roubaix. Poi, più nulla. Invitato a questo o a quel circuito, a questa o a quella kermesse, Van Looy rispondeva ogni volta: “O lui o io” - e gli organizzatori sacrificavano Beheyt, che smetterà di correre a soli 26 anni d’età. Divenne poliziotto. Matrona assai distratta, la Vita fece sì che mentre s’allenava a sparare, un bimbetto, correndo, si frapponesse tra lui e il bersaglio, e ne restasse ucciso. Quel bimbo era suo figlio. Beheyt sfiorò la follia. Tentò il suicidio: più volte. Risorse piano piano. Si reinventò giudice di corsa. Seguiva il gruppo con la moto, segnalando alla giuria le eventuali irregolarità dei corridori.
Vive ancora, Beheyt: oltre la taccia di traditore che, meritata o meno, gli incenerì una carriera promettente; vive ancora, Beheyt, oltre l’orrore di avere spento il frutto del suo stesso seme. Pensare a lui è pensare a un impossibile che séguita a persistere, a restare tra noi. La bicicletta è febbre aerea, è metallo temprato, è sforzo, disciplina, gioia. Il destino di Benoni Beheyt ha l’odore di una polvere umida nella quale zampettano insetti lenti ma ostinati. Visibile, dicibile, narrabile è l’orrore in cui visse e che per certo lo abita ancora. Più feroce veleno è l’orrore che narrare non puoi: quello che serra il cuore ai petti cui richiedi un’eco; quello che ottiene in cambio, inesorabilmente, un desolato “è così!”, un mortifero “tutti hanno un tormento...”, un merdosissimo “e allora che cosa dovrei dire io?” È qui che il cerchio si richiude. È qui la serpe offerta a chi chiedeva un pesce, il sasso dato in pasto a chi implorava pane. Qui la Vita, puttana e mediocre, trionfa, altera lieta imbellettata, sui suoi figli più pallidi, più torturati e soli