Don Piero Frizzarin saluta la Calabria e la sua Corigliano-Rossano
Dopo tanti anni passati a Corigliano-Rossano, Don Piero Frizzarin ritorna in Veneto. Oggi ha deciso di raccontarci i momenti più importanti di questi 42 anni vissuti tra i paesi che lo hanno accolto
CORIGLIANO – ROSSANO - La storia che vogliamo raccontarvi è quella di un sacerdote partito dal Veneto 42 anni fa per svolgere la sua missione qui in Calabria. Era il 1980 e, come lui racconta, Rossano è stata la sua prima tappa.
Il suo è il profilo di un sacerdote di ampie vedute, che negli anni ha sperimentato e cercato di diffondere un’idea di Chiesa post conciliare, più libera. Ma la nostra terra non lo ha sempre sostenuto, né capito.
«Sono arrivato a Santa Maria delle Grazie – dice- e il motivo del mio arrivo era il seguente: volevo vivere assieme la contemplazione e l’annuncio della Parola di Dio. Mi sembrava che la comunità di Gianni Novello potesse rispondere a questa mia ricerca. Ma poi non fu così… dopo un anno e mezzo circa ho lasciato la comunità».
Cosa lo ha spinto a restare?
«In quell’anno e mezzo trascorso qui avevo conosciuto un po’ la Calabria. Mi ero accorto che era scarsa di clero e quindi mi sono posto la domanda: “È giusto tornare a Padova dove ci sono molti sacerdoti invece di restare qui dove i sacerdoti sono pochi?”. Ho chiesto al Signore di farmi conoscere la sua volontà su di me, attraverso l’accordo dei due Vescovi di Padova e di Rossano. Entrambi furono d’accordo, perciò rimasi.
Dal 1982 al 2022 è stato parroco di San Morello, che esperienza è stata?
«È stata una full immersion per me nella realtà calabrese. Ho conosciuto la vita delle famiglie calabresi: usi, costumi abitudini e tradizioni, cercando di farle mie (alcune ovviamente). È stato un tempo molto proficuo per il paese perché mancava il parroco da 20 anni. In questo paesino la gente non sapeva cosa volesse dire vivere avendo anche il parroco come residente».
Quali sono state le sue speranze e i suoi progetti per quel territorio dimenticato?
«Mi ero promesso fin dall’inizio di formare soprattutto i ragazzi e i giovani, perché pensavo che avrebbero dato negli anni successivi un volto nuovo al paese e alla parrocchia»
Come andò?
«Sono stati anni intensi. Tanti progetti, tante speranze, sogni, gioie ma anche dolori e delusioni. Purtroppo nel 1987 una nuova ondata di emigrazione portò via tutti i giovani e rimasero solo ragazzini e anziani. Mi dedicai a loro fino al 2002».
Poi cosa accadde?
«In quegli anni avevo avviato il corso per consulenti familiari e nel 2002, quando ormai l’attività di consulente era diventata impegnativa, ho lasciato il paese e mi sono trasferito a Rossano».
Ci parli di questa esperienza, il consultorio familiare. Era una grande novità per la nostra diocesi.
«Si. Il corso di formazione alla consulenza familiare è stato condotto da Padre Luciano Cupia, religioso dell’Omi. Un pioniere della pastorale familiare in Italia. Aveva fondato a Roma nel 1965 uno dei primissimi consultori di ispirazione cristiana, che aveva tante piccole succursali sparse in tutta Italia. Eravamo un gruppo di circa venti persone. Mi chiesero di prendere le redini e diventai direttore. Il Vescovo inaugurò il consultorio familiare il 31 maggio 1991. La sede era in un condominio della periferia di Rossano e tutte le consulenze erano gratuite. I primi anni era aperta tre pomeriggi a settimana poi le richieste aumentarono e l’apertura al pubblico divenne quotidiana. È stato un periodo molto prolifico. Il consultorio diocesano di Rossano era quello che lavorava meglio in quegli anni».
Come finì?
Dalla sera alla mattina. Il vescovo che subentrò rase al suolo tutto il lavoro fatto. Venne condannato il mio operato. Tutto ciò mi spinse a rassegnare le dimissioni, che vennero subito accettate.
Il 2006 fu l’anno d’inizio della sua esperienza di cappellano della Casa di Reclusione. Ce la racconta?
«Dopo la delusione per la fine del consultorio familiare venni contattato dal Vescovo di allora che mi propose per questo incarico. Gli chiesi “Cosa si aspetta da me?” e lui rispose “Che tu animi la pastorale. Che tu dia vivacità alla vita in carcere, perché quello che c’è stato fino ad oggi è stato, praticamente, il nulla”. Ricordo ancora che alle pareti della Chiesa del carcere c’erano fogli sbiaditi vecchi di quattro anni prima. La stessa domanda la feci anche alla Direttrice di allora, e lei mi disse “Mi aspetto che lei si prenda cura dei bisogni umani dei detenuti, ai quali noi come struttura penitenziaria non siamo in grado di rispondere”. Queste due risposte hanno guidato il mio inizio e quindi il mio intero ministero con i detenuti».
Qual è stato il suo approccio e come ha organizzato la pastorale penitenziaria?
«Il mio ministero all’interno del carcere è stato, fin dall’inizio, guidato da questi principi: 1) i detenuti prima di essere delinquenti/detenuti sono persone. Come tali li ho sempre visti e come tali li ho sempre trattati. 2) La mia presenza in carcere non deve essere una presenza soltanto di assistenza religiosa (messa e confessione). Io devo organizzare ed animare una pastorale penitenziaria. Pertanto, se si tratta di pastorale, devo compiere le stesse attività che si compiono nella pastorale parrocchiale. Pur con regole diverse il carcere deve essere una parrocchia, dove il Cappellano è il parroco e i detenuti sono i parrocchiani. Ora, nel 2022 devo riconoscere che il mio ministero in carcere ha potuto contare anche su altri elementi, che allora davo per scontati, ma che oggi posso riconoscere che tali non erano. Il lavoro nei consultori mi aveva messo a contatto con le sofferenze umane, mi aveva forgiato a vivere più dimensioni della natura umana».
Prima di lasciarci le chiedo: che ricordi conserverà di questi anni in Calabria?
«42 anni sono tanti, certo li ho vissuti in modo molto vario. Ho realizzato attività dei generi più diversi e ho incontrato migliaia di persone. Fino a poco tempo fa mi rammaricava il fatto che di ciò che ho realizzato non ne è rimasta traccia. Ora mi rasserena un testo di San Paolo: “Perché non mi montassi di superbia per la grandezza delle rivelazioni mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. (2Cor 12,7-9). Perché non monti in superbia il Signore non vuole che io lasci traccia del mio operato. Ti basta la mia grazia. Mi basta sapere di essere stato strumento della sua Misericordia. Questo mi basta».