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Chiacchiere d’avantieri per un poeta d’altri dì: Ennio

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             Tanti e tanti anni addietro, in un Liceo che non nomino ma che era (e forse è ancora) avventurato al punto che vi apprendevi verità pure se non ne avevi voglia, si presentò un bel giorno una supplente di Chimica. Avvezzi a fare men che poco con la titolare, credemmo tutti che con la sostituta avremmo fatto un festevole nulla. Bellina anzi che no e graziosa di rustica grazia, neolaureata, ligia al compito suo, si mise invece a snocciolare una giaculatoria che ancora oggi m’ossessiona: “Metano Etano Propano Butano, Metanolo Etanolo Propanolo Butanolo, Metilene Etilene Propilene Butilene”, e seguitò a ripeterla fino a che si fermò a prender fiato. Qui Lucio le chiese sornione se amasse più Guccini o più Franco Battiato. Rispose brava e giusta non esser quello argomento da scuola, sicché Cecilia ai nominati menestrelli sostituì soave Dante e il Petrarca. “Dante senz’altro”, rispose la supplente, e con una serietà così piccata, che ne volli sapere il perché. “Perché Petrarca parla sempre di Laura!” “Non mi pare un problema”, ribattei. “Del resto, Dante canta Beatrice, e…” Con aria e tono di giovane comare tra comari più vecchie, spiegò la voce e disse: “Sì, però ne parla meno. Petrarca, invece, sempre Laura Laura Laura. E chi sarà stata questa Laura, Marylin Monroe?!?” Dio t’abbia sempre in gloria, acerba rosa d’un eterno roseto! Ho scordato il tuo nome, mai più ti vidi da quei giorni, però di te so tutto. Hai sempre venticinque anni, eternità d’ogni tuo petalo. Come a ognuno di noi, fu detto pure a te che c’è una cosa chiamata Cultura, e che bisogna averla, la cosa chiamata Cultura. E tu l’avevi, quella strana cosa: tu eri docente di Chimica. La siepe ti salvò, poiché mai la varcasti. Quanto a Laura, sarà mai stata più bella di te?

         Precipitiamo nell’Inferno. Se devo figurarmi quell’astrazione detta lettore medio, vedo la giovane supplente, priva però della rustica grazia, degli eterni suoi petali. Vedo un frutto sformato, acidissimo, qua e là bacato; mondanamente avveduto, il frutto chiude in sé vomitevole spocchia verso chi sa meno, vomitevole invidia per chi sa di più. Per il lettore medio, e ci avviamo verso Ennio, una poesia d’amore vale se e solo se il poeta era davvero innamorato e se la donna cantata era davvero bella. Frequenta solo scrittori alla moda ovvero autori la cui bontà gli sia certificata. Fosse coerente, leggerebbe La pioggia nel pineto solamente in un giorno di pioggia. Monomaniaco del partito, si dedica solo ad autori di cui è certo che, se vivi oggi, avrebbero votato come lui. Nulla più aggiungo.

         “Il mondo dell’Arte non è questo mondo più o meno idealizzato: è un altro mondo.” (André Malraux). Questo altro mondo nasce, se nasce, dalla felicemente risolta tensione tra il solco tracciato nella mente comune da chi venne prima e l’urgenza di dare forma al proprio tumulto. Con il solito acume, Manzoni segnalò lo stridore che la cosa può comportare: “Fra i varj spedienti che gli uomini hanno trovato per impacciarsi l’un l’altro, ingegnosissimo è quello di avere, quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute egualmente come infallibili. Applicando quest’uso anche ai piccioli interessi della poesia, così dicono a chi la esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi abbiano lasciato l’esempio.” Detta tensione, ogni buon liceale lo sa, fu più penosa pei Romani. Ennio la risolvette scrivendo per primo in esametri. Se, volgendo dal greco, Livio Andronico aveva latinamente chiamato la Musa Camena, Ennio la chiama grecamente Musa, ma non è meno romano per questo: Musae, quae pedibus magnum pulsatis Olumpum (ho scritto Olumpum perché così Ennio scrisse: chi lo ritocca, muore!). Più intensa l’ellenizzazione di costrutti. Il latino, però, restò latino pure dopo Ennio. Le Lettere di Roma non avevano mosso né moveranno passo senza avere guardato a quelle di Grecia, ma avanzeranno coi propri calzari. Oltre agli Annales, che fecero di lui un Omero secondo, Ennio scrisse commedie, tragedie, Saturae, di cui forse inventò il genere, e volse in prosa latina la prosa greca della Hierà anagraphé del siceliota Evemero. Grandioso pensoso solenne; goffo a paragonarlo al bonificato latino dell’età di Augusto (ma l’Arte non migliora col tempo, e perciò goffo è il paragone); goffo anche per noi in certe allitterazioni (altre però sono splendide) e in una famigerata tmesi che tralascio perché, nota a chi sa, annoierebbe chi non sa -ma ignorare senz’ansia non fu mai peccato! Una mole inumana di versi, una sparuta rimanenza. La cosa fa tristezza. Quando penso però che se tutto di ognuno fosse stato serbato, si patirebbe d’asfissia. Passo ora alle mie traduzioni.

Dalla Andromache (Tragedia): Rovinata dall’alto, strappata, / Ettore, al braccio tuo, quale soccorso / andrò chiedendo? a chi? dov’è certezza / d’esilio, o via di scampo? /Rocca, città, perdute. Dove andrò / a piegare i ginocchi? Are paterne, / frante, distrutte; templi / divorati dal fuoco, mura immense / ora nude, deformi, e travi / che le fiamme hanno storto… / O padre, o patria, o casa / di Priamo, tempio chiuso / da cardine sonoro – ti levavi / tu, barbara di sfarzo, coi soffitti / intagliati, dimora / di re, adorna d’oro e d’avorio. / Tutto ciò vidi prendere fuoco. / Vidi a Priamo strappare la vita. / Vidi l’ara di Giove nel sangue.

         Dal Thyestes (Tragedia): Confitto alle cime più aguzze d’una scogliera, con le budella al sole / penda di fianco spruzzando le rocce di nero sangue infetto. / Gli sia negato il sepolcro che come un porto accoglie / il corpo di chi ha compiuto il proprio corso umano.

Dalle Saturae: Leggero lieto lustro, arrivi: lesta / la mano, atroci le mascelle, già / pronto al salto, già primo, come un lupo. / E sbafi, sbafi tutto. Cosa credi / che rimugini l’ospite? Egli piange / ogni provvista che ridendo spolveri.

Dallo Scipio (Carme celebrativo di Scipione l’Africano): Tutta tacque l’immensità del cielo, / e il crudele Nettuno impose pace / alle onde in tempesta, fermò il sole / i suoi destrieri dal volante zoccolo. / Più non sommuove fronda il vento. Immote / stettero l’acque perenni dei fiumi.

         Dagli Annales (frammenti sparsi): [1]Qui Giove rise, e del riso di Giove / che tutto può, il cielo tutto rise.

[2] Avanzano per boschi senza luce, / la scure in mano. Abbattono maestose / querce, e il frassino, e il leccio, e l’alto abete. / Gettano in terra pini eretti in cielo. / Freme e risuona il bosco in ogni fronda.

[3] Qui la vecchia ridesta, con le membra / tremanti reca un lume. Ilia, atterrita / dal sogno, ciò le narra: “Di Euridice / progenie, cara sempre a nostro padre, / perde vigore e vita il corpo mio. / Ho visto in sogno un uomo molto bello. / Per plaghe ignote, tra salici ameni, / mi trascinava, e mi pareva poi / di andare errando sola, di cercare / traccia di te, sorella, a lento passo, / senza trovarti mai. Nessun sentiero / offriva una via certa. Qui era come / se la voce del padre mi chiamasse / così dicendo: ‘Figlia, patirai / pene assai presto. Poi verrà dal fiume / sorte più salda.’ Ciò, sorella, disse / il padre, e sparve, né tornò a mostrarsi / al cuore mio che lo bramava, e in vano / alle volte del cielo ritornavo / a levare le palme, e lo chiamavo / con voce carezzevole. Penando, / il sonno mi lasciava nell’angoscia.

 

        

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.