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La voce di Catullo attraverso la mia raucedine

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Verissimo tra i grandi, grandissimo tra i veri, Gaio Valerio Catullo: breve forte leale pio felice monello crudele ferito disperato morto. Un’arte che trama ogni verso che scrisse, la sua; un’arte che egli mostra soltanto quando vuole. Da una parte la vita, dall’altra il canone, il solco imprescindibile che i Greci avevano tracciato nella giovane terra che un giorno si chiamerà Occidente. Ma Catullo, però, fece suo tutto ciò che toccava.

M’irrita avere scritto queste righe. Credo in quello che ho detto. Non lo rinnego. È che di Catullo avrei voluto dire ogni cosa, o il poco che posso, soltanto con le traduzioni che m’appresto a offrire: pallide se confrontate al testo, cercano esse un lettore che il testo ignori o che del testo si sia dimenticato.

2 La mia ragazza gioca con un passero: / lo porta al seno, gli stuzzica il becco / con la punta del dito, e lui mordicchia… / Al desiderio mio pieno di luce / piace giocare, gioca, scherza un attimo / a sgravarsi d’affanno, se l’affanno / dura. Io non potrò mai fare così, / non potrò mai farmi leggero il petto.         

5 Sei mia. Viviamo, amiamo, Lesbia: tutte / le chiacchiere dei vecchi rompiscatole / non valgono un centesimo. Tramonta / e sorge il sole: noi, quando la breve / luce si è spenta, una perpetua notte / noi dormiremo. Dammi mille baci / e cento, e mille ancora e ancora cento / e mille, e cento, e così sia. Sul mucchio / di tutte queste migliaia di baci / soffiamo sopra: perché mai sapere / quanti baci ci demmo? e perché deve / saperlo qualche squallido invidioso?

34 È Diana la nostra custode, / noi puri fanciulli e fanciulle; / e Diana cantiamo noi puri / fanciulli, noi pure fanciulle. // Tu, grande progenie di Giove / superno, Latona tua madre / a Delo ti diede la vita / reggendosi a un tronco d’ulivo // perché diventassi signora / di monti, di vìridi selve, / di forre negate alla luce, / di fiumi dai flutti sonori. // Giunone Lucina ti chiama / la puerpera in doglie, sei Trivia / possente, e hai nome di Luna / dal raggio che spandi riflesso. // Col corso del mese misuri / il volgersi lento dell’anno, / e colmi di floride messi / il rustico tetto al villano. // Comunque ti piaccia esser detta, / sia tu venerata, e benigna / secondo l’antico costume / proteggi la stirpe di Romolo.

48 Giovenzio, se potessi / i tuoi occhi di miele / baciare e ribaciare / trecentomila volte, non saprei / dirmene sazio. Mai mi sazierebbe / una messe di baci fitta più / d’un campo giallo di spighe riarse.

58 Celio, Lesbia, la mia Lesbia, la stessa / Lesbia, la sola che Catullo amasse / più di sé più dei propri cari tutti, / per quadrivi e angiporti ora spompina / l’intera maschia stirpe dei romani.

73 Bene da alcuno non sperare più. / Né che alcuno sia giusto. / Qui tutto è ingratitudine. / Il bene che facesti è cosa morta. / Anzi, è noia. Anzi, è danno. Chi mi ebbe / soltanto amico, unico amico, ecco, / più in cuore, più di cuore mi tormenta.

76 Se dolcezza verrà dal ricordo del bene compiuto, / quando siamo sicuri d’essere stati giusti, / di non avere sporcato promesse, di non aver coperto / col nome di alcun dio patti fallaci a rovina degli uomini, / Catullo, nel tempo che verrà troverai tanta gioia / per te, dal cuore stesso di questo amore respinto. / Tu facesti e dicesti ogni bene che agli uomini è dato / di fare e di dire. Quel bene morì tra mani ingrate. / E ti torturi ancora? Perché non ti fai forte? Perché / non fuggi? Perché offendi gli dei aggrappato al tormento? / Duro è troncare di colpo un così lungo amore. / È duro, ma lo devi. Non c’è altra salvezza. / Salta oltre te stesso, anche se credi che non puoi. / O dei, se è in voi misericordia, se mai ad alcuno / porgeste aiuto nell’ultimo dei suoi istanti, / ecco, ecco il mio dolore: se vissi con purezza / strappate da me questo danno, questa desolazione / che mi va tra le membra come una peste / a scacciare la gioia da tutte le fibre del petto. / Lo so, non chiedo che mi ami, né meno ancora / pretendo da lei fedeltà. Guarire. Voglio guarire. / Voglio che si dissolva questo tormento senza luce. / Esauditemi, o dei, per la pietà che vi ho sempre portato.

(foto in copertina: affreschi romani)

 

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.