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Un medaglione per un tigre: Georges Clémenceau

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Sto per tentar di cesellare il medaglione di Georges Clémenceau, un uomo che non becchi tracciando coordinate; e inizierò con un atto di contropedanteria. Spiegherò poi che cosa intendo. L’atto, per ora, è questo: trovo attestato tanto Clemenceau che Clémenceau; saprei qual è la forma giusta solo se avessi tra le mani la mia copia del Dizionario d’ortografia e di pronunzia. Ma non ce l’ho. Scelgo la forma accentata sperando, non solo che sia giusta, ma soprattutto che l’articolo sia letto almeno da un contropedante. Il pedante è la Vita. Essa vive soltanto se distratta imprecisa arrogante cialtrona inopportuna. Nulla le importa d’un accento, nulla le importa d’ogni sfregio; le importa solo di poter sbagliare o dire giusto a caso: così, come le viene; le importa solo di poter smerciare come verità unica la sciatta imprecisione del momento, e di dimenticarla per passare a produrre imprecisioni nuove spacciandole ogni volta per immote verità. Dà del pedante, la Vita, a chi non è che umilmente preciso. Mi diverto perciò a chiamare contropedante chi pretende esattezza là ove esattezza è necessaria. È un servigio alla Vita, ogni atto di contropedanteria: un servigio a una Vita più alta.

Georges Clémenceau fu un uomo tutto forza nervosa, tutto ansia di giustizia, tutto ricerca d’ordine. Amò la Francia, l’Umanità, le donne, i fiori. Nato da una famiglia protestante per parte di madre e rabbiosamente repubblicana per via paterna, fu giornalista al servizio del vero: tra cento battaglie, ospitò su L’Aurore l’articolo di Zola in favore dell’innocente capitano Dreyfus deportato all’Isola del diavolo, e fu lui a intitolarlo J’accuse. Anticlericale e nostalgico del paganesimo, da deputato radicale (sarà anche senatore) s’oppose alla politica colonialista di Jules Ferry in nome dell’elementare certezza dell’eguaglianza fra ogni gruppo umano. Causa della caduta di non pochi primi ministri, gli fu affibbiato il nomignolo di tombeur de gouvernements (“butta giù governi”). Di altri appellativi lo si adornerà; le tigre (“il tigre”) fu comunque il suo epiteto fisso. Sincerissimamente vicino al popolo, da primo ministro e insieme ministro agli Interni (1906-1909) non esitò a reprimere scioperi che minacciavan di degenerare in quei disordini che non tollerava. Gliene derivò il titolo di briseur de grèves, e cioè di crumiro. Restarono nella memoria le polemiche col socialista Jaurès, del quale il tigre disse che, se la realtà è un presente, i verbi usati da Jaurès eran tutti al futuro. In una Francia terrorizzata da bande criminali dotate già di automobili e di armi moderne, rinvigorì una Polizia che andava ancora a cavallo e in velocipede, e i risultati furon tali, che lo si chiamò primo gendarme di Francia.

La quasi giacobina centralizzazione del potere; le nostalgie regie, tanto borboniche quanto orleaniste; i giovani ricordi del Secondo Impero; i conati dittatoriali (affaire Boulanger); il bieco antisemitismo di una parte della popolazione (affaire Dreyfus); la questione sociale; la sempre rinnovata nonché sempre più intensa minaccia germanica: in questa e di questa Francia, la Francia della Terza Repubblica, Clémenceau seppe essere l’iracondo ferreo saggio cavallerizzo. Lo fu per virtù d’un buon senso mai gretto. Nessun partito riuscì a contenerlo poiché era ancorato alle cose ed elasticamente proteso all’ideale più di quanto un partito potesse. Fautore d’un avvicinamento alla Gran Bretagna e della necessità di prepararsi a un inevitabile conflitto armato contro la Germania, tornato a capo del Governo nel Novembre del 1917 (pure suo il Ministero alla Guerra), profuse ogni energia visitando il fronte, stimolando o rimovendo generali tiepidi, imponendo il maresciallo Foch a capo di tutte le forze alleate, forzando la Francia intera ad aver fede in una vittoria che da lì a poco giunse. Churchill dirà che se fu dato mai a un uomo di incarnare la propria nazione e il proprio popolo, quell’uomo era stato Clémenceau nei mesi finali del conflitto. Gli farà eco lo sconfitto kaiser Guglielmo II che sospirò con amaro candore che se Clémenceau fosse stato il primo ministro dell’Impero di Germania, quest’ultimo non avrebbe perso. Père de la Victoire (tradurre è inutile) fu l’ultimo appellativo di cui il grande vecchio fu fregiato.

Georges Clémenceau scrisse romanzi e un dramma: non li ho letti. Tenerissime le superstiti lettere d’amore a questa e a quella tra le tante donne che lo amarono e che amò. Amava pure i fiori, e le arti gentili. Fraternità di anime lo legò a Claude Monet. Non fu mai presidente della Repubblica. Sconfitto appunto nella corsa all’Eliseo (Gennaio 1920), lasciò l’attività politica. Prossimo a morte, urlò che per il proprio funerale non avrebbe voluto fanfare o vessilli, litanie di preti o discorsacci di politici: gli sarebbe bastato l’essenziale, e cioè lui stesso morto. Chiuse gli occhi per sempre nel Novembre del 1929. Aveva ottantotto anni d’età. Pochi anni prima s’era spento Monet, dominatore mobilissimo di luci crome e vibrazioni, e autore del quadro che, intitolato Rue Saint-Denis, fête du 30 juin 1878, abbiamo apposto a questo scritto.

in copertina: Monet, Rue Saint-Denis, fête du 30 juin 1878

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.