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Dignità che risuona nei secoli: Decimo Laberio

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Anno 55 avanti Cristo: Pompeo il Grande fa edificare in Roma il primo teatro in muratura. Soltanto drammi del periodo arcaico, però, vi si recitano. Furoreggiano infatti nuovi spettacoli di minor momento, tra i quali spiccano il mimo danzato e quello recitato, nel quale ultimo eccellono il giovane Publilio Siro e il già attempato Decimo Laberio. Se al liberto Publilio calcare la scena era lecito, lecito non lo era in alcun modo a Decimo Laberio che, cavaliere romano, col farlo sarebbe decaduto dal suo rango. Roma è oramai in mano a Cesare, contro il quale, in due versi superstiti che traduciamo come ci riesce, Laberio, coraggioso e imprudente, aveva scoccato due incendiarie saette: “Ti perdiamo di nuovo, libertà” e “Chi è temuto da molti, molti tema”. Vittorioso a Tapso sulle forze senatoriali di Scipione Nasica, Petreio, Catone Minore e del loro alleato Giuba I di Numidia (46 a. C.), Cesare, durante i festeggiamenti che ne seguiranno a Roma, impone a Laberio, con parole inappellabilmente dolci, di esibirsi alla folla recitando egli stesso il suo mimo in gara con Publilio che lo aveva sfidato. Sarà Cesare a stabilire chi avrà vinto. Vinse Publilio, e Laberio decadde dal rango. A affronto consumato, il tiranno reintegrò il vecchio poeta e lo ricompensò d’un gruzzolaccio di denari. Non è forse virtù d’ogni Cesare pareggiare i viventi giocando a mandarli su e giù perché ognuno lo tema?

Il sobrio orgoglio di sé, l’abitudine a un privilegio diventato seconda natura, l’amarezza per una dignità sfilacciata per l’alto capriccio di un uomo d’eccezione che alla più parte dei Romani suonava come una nota nuova e stridula, ispirarono al vecchio poeta alcuni versi recitati a prologo della forzosa esibizione. Sarà Macrobio a tramandarli. Belli e maschi, sanno di pianto trattenuto – querela che ancora risuona da un’offesa smarrita nel buio dei secoli.

Eccone la mia traduzione: Necessità, gli obliqui colpi tuoi / non evita chi vuole, e mi conduci / qui vecchio. Non denaro, non paura, / autorità o violenza, mai mi smossero / giovane dal mio stato. Ora le blande, / quasi casuali, placide parole / d’un grande uomo mi gettano a terra. / Gli dei nulla gli negano, e che posso / io uomo? Io che sessanta anni onorati / vissi, io uscii da casa mia romano / cavaliere e, vedete, eccomi mimo. / È un giorno aggiunto ai giorni miei. Fortuna, / immoderata nel bene e nel male, / se stava a te smozzare la fulgente / punta della mia gloria quando tutto / era plauso, perché non mi curvasti / allora che flessibile, che tenero, / al popolo e a quest’uomo m’era facile / dare quello che vogliono? Lo fai / ora? Perché? Che porto sulla scena / io? bellezza? prestanza? vigoria / di spirito? l’incanto d’una voce? / L’edera uccide l’albero che abbraccia. / Me abbraccia la vecchiezza. Sono come / un sepolcro. Di me non c’è che il nome.

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.