Non tutti i mali vengono per nuocere, dice un vecchio adagio, ed il Coronavirus - questa sorta di mostro "invisibile" che colpisce senza pietà chi si fa trovare impreparato - ci ha costretto tutti a casa: sul divano, con i piedi davanti al camino, un libro in mano a rimuginare di tutto e di più. A fare... nulla. O quasi. Perché se l'ozio è bello per qualche ora poi stanca anche lui. Ed ecco, allora, inventarsi la qualunque per "ammazzare" il tempo, per spingere le lancette verso l'ora del sonno in attesa di un'altra giornata senza far nulla. Ovviamente non è per tutti così. Perché c'è ancora tanta gente che nel silenzio esce di casa e di nascosto dalla "peste nera del Covid-19" continua a lavorare e a produrre (e meno male!) per non farci mancare nulla sulle tavole e per non permettere che il mondo si fermi del tutto. A loro il plauso di tutti. Un grazie infinito. Ma - dicevamo - di tutto quel mondo, invece, che rimane nel chiuso delle mura domestiche. Che si fa? Cosa ci si inventa nella paura di uscire dove anche una boccata d'ossigeno sembra essere diventata quasi letale? Alle nostre latitudini è ritornato quasi di moda riscoprire le tradizioni domestiche. Ci sono donne (e anche uomini), giovani e meno giovani, che stanno ritornando a vivere le fatiche di quelle che un tempo si chiamavano le pulizie di Pasqua (o di Primavera). Tutto giù: piumoni, tende, stoviglie, coperte. Tutte ripulite e rimesse a posto. I muri delle nostre case probabilmente non sono mai stati più splendenti. E poi c'è il tripudio della cucina. Ieri sera (un sabato di fine inverno) con quasi matematica certezza è stato il giorno in cui si è battuto il record di pizza fatta in casa. Ognuno ad "ammassare" pasta; farine di ogni genere mischiate tra loro per esperimenti che avrebbero fatto invidia anche ad un grande pizzaiolo come Gino Sorbillo. E poi oggi, domenica di festa e di quaresima. Gnocchi e maccheroni a ferretti, strascinate e fileji tutti prodotti rigorosamente con olio di gomito e perizia domestica sulla spianatoia delle occasioni di festa, ma che adesso, in questa settimana, è ritornata a ri-imbiancarsi come non mai. Tanto che - forse - nemmeno le nostre nonne avrebbero immaginato che l'avremmo usata così tanto. E tra una pasta e l'altra, tra un sugo al rugo e una polpetta, nel lento spingere delle ore, ci siamo messi a fare anche le conserve. Stiamo ritornando a stipare di tutto: dalla la zucca sott'olio ai capperi sotto sale. E la sardella?! Schhh non si dice... Ma il tripudio di tutto è il pane. Quello fatto nei forni di casa. Il rifugio dei momenti tristi, di quando si sente in lontananza lo spettro della carestia, della sofferenza, dei giorni difficili. Dagli ebrei a noi, passando generazioni di epopee, crisi, guerre e pestilenze, il pane è stato sempre il bene rifugio di tutti, della gente umile (altro che l'oro!). E quando la gente inizia ad autoprodursi il pane è perché in qualche modo ha paura ed esorcizza il futuro. Perché il pane, in una casa del sud non può e non deve mancare mai. E questo perché è la la vita stessa - come diceva quell'immenso giornalista che fu Indro Montanelli, che ha vissuto da eroe il secondo conflitto mondiale - ad essere come il pane: «col trascorrere del tempo diventa più dura, ma quanto meno ne resta tanto più la si apprezza».
mar.lef.