«Dimenticare qualcuno è uccidere ancora», ma il numero 11.000 non può che risuonare fastidiosamente nell’enciclopedia della storia italiana. Questo è il bilancio delle
vittime delle foibe, teatro di vere e proprie esecuzioni di massa. Le tecniche di uccisione erano terribili: nelle cavità naturali presenti sul Carso – altopiano tra il Friuli, la Slovenia e la Croazia - i condannati a morte venivano legati l’uno all’altro con un lungo fil di ferro stretto intorno ai polsi; una volta schierati sugli argini delle foibe, veniva aperto il fuoco su di loro con i colpi dei mitra che li trapassavano da parte a parte. Non si sparava su tutto il gruppo, ma soltanto sui primi tre o quattro della catena; questi, precipitando ormai senza vita nelle foibe, trascinavano con sé gli altri condannati ai quali erano stati legati. Alcuni sopravvivevano per giorni, tra atroci sofferenze e con accanto gli altri cadaveri. La colpa – agli occhi dei partigiani di Tito - era quella di far parte dei vinti, di coloro che, solo perché italiani, erano automaticamente fascisti. «Si trattò di
una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono, per superficialità o per calcolo, il dovuto rilievo. Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi che conobbero nella loro Madrepatria, accanto a grandi solidarietà, anche comportamenti non isolati di
incomprensione,
indifferenza e persino di
odiosa ostilità», afferma il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il dolore e le sofferenze dei prigionieri, la loro angoscia, non possono essere dimenticate e oggi, il potere della memoria è riuscito a battere un avversario più forte e più fastidioso, qual è l’indifferenza, la noncuranza. Sia pur con fatica e lentezza, il triste capitolo delle Foibe e dell’esodo Giuliano Dalmata è uscito dal cono d’ombra ed è entrato a far parte della storia nazionale, almeno in parte, accettata e condivisa